domenica 30 marzo 2008

Dio è distratto - cap. 3 Napoli



Era luglio, era finito il loro primo anno d’università, avevano fatto gli esami che dovevano fare ed erano pronti per le meritate vacanze. Erano liberi, liberi di andare dove volevano, di fare quello che volevano, Anna, Yuri e Dean, io ad aprile avevo abbandonato l’università, ma ero comunque libero, addirittura più libero di loro, seppure mi sentissi imprigionato, come in catene, e non sapevo dove volevo andare, cosa volevo fare: non facevo niente, non sapevo che fare e stavo fottutamente male. Avevo messo da parte Marylin da un bel po’ ma ben presto subentrò lei, Trikster, a rimpiazzare quell’idea fissa, ad insediarsi tanto tortuosamente e burrascosamente nei miei sogni, ed io cieco, come uno stupido le correvo appresso, minacciando scenate, silenzi, fughe, suicidi.
Era l’indomani di una memorabile serata di bevute e baldorie, dapprima dentro e fuori il 32, poi davanti al parchetto, come milioni di altri giorni prima e dopo. Eravamo un magnifico terzetto, Yuri, Dean ed io, nel mezzo di una San Lorenzo popolata da sporchi, fatti e strafatti, barboni, ubriaconi, cani, punkabbestia, spacciatori, risse, sorrisi, conoscenze, amori, sventure, avventure, birra o vino e hascisc o marijuana, se non oltre; questa era la vita di San Lorenzo, noi ne facevamo parte e adoravamo inoltrarci in quei fondali di miseria a parlare di Freud, Nietschze, Goethe e di magia mentre scrivevamo libri e non ce ne accorgevamo.
L’indomani mi svegliai presto come d’abitudine, una pessima abitudine dato che poi mi sento sempre stanco. A mezzogiorno circa venne da me a San Lorenzo Yuri con lo zaino in spalla e la tasca piena di roba da fumare. Facemmo il caffè e fumammo un paio di canne, poi ci avviammo verso la Prenestina, direzione casa di Dean. Arrivati in via Malatesta, sotto il palazzo dove avrei vissuto poi, il portone era aperto, salimmo direttamente a bussare alla porta. Fummo noi a svegliarlo. La prima cosa che Dean fece fu preparare un cylum. Partivamo bene.
Fumammo svariate canne e cylum, prima di dirigerci alla volta dell’appartamento di Jason sulla Palmiro Togliatti dove avrei abitato per un paio di mesi dal settembre che poi venne rapidissimo. Quando fummo lì Anna ci aspettava già da un pezzo. Scopava con Jason da qualche mese, quella storia che non è mai stata storia durata due anni, lei ne era totalmente presa, sebbene la sua ossessione non era lui, bensì il suo membro, l’unica cosa che le rendeva la vita sublime. All’epoca era da poco iniziata quella strana relazione di sesso e nessun rispetto finita soltanto questa primavera, quando Anna ha deciso di cambiare casa perché non ne poteva più del suo…coinquilino!
Hanno distrutto la strabiliante amicizia che avevano, come se io non li avessi avvertiti di stare attenti, come se non gli avessi detto come sarebbe andata a finire, come effettivamente è andata a finire, e glielo dissi così tanto tempo prima, ma non mi diedero ascolto cadendo in una serie di spiacevoli errori e ritorsioni. Ora non si parlano nemmeno più, se non per dirsi qualcosa l’uno contro l’altro, come due ragazzini.
Dovevamo andare non ricordo dove stando ai programmi ubriachi della sera precedente ma al risveglio dal mio sonno alcolico ero intenzionato a portare tutti a Napoli, come poi avvenne. Non fu difficile convincere Yuri mentre andavamo verso casa di Dean, che subito accolse l’idea con calore ed euforia. Neanche finito di esporre il progetto che Anna stava avvisando Mena del nostro imminente arrivo nella città di Pulcinella… e Maradona!
Napoli. Mia amata odiata Napoli. Era a Napoli che studiava Marylin, che si ambientò subito, fin troppo bene, libera ormai da me, dal mio fantasma. L’agosto seguente ci sarei ritornato con Trikster, che poi avrei portato con me a Battipaglia prima, ed a Sant’Eugenio poi, giusto per stritolarmi il cuore.
Nel treno occupammo un vagone da sei interamente per noi quattro, prima di partire avevamo acquistato birre in abbondanza e Yuri aveva una tasca piena d’hascisc. Dean preparava una canna dopo l’altra, era stato eletto rollatore ufficiale della vacanza e la birra era un ottimo scudo contro il gran caldo di luglio, anche se faceva sudare. Sudare fa bene. Noi ci sentivamo bene, stavamo bene e volevamo vivere, sebbene qualcuno di noi, me compreso, lo negasse, troppo invischiato in disumane sovversioni cerebrali.
Ero certo che Mena sarebbe rimasta subito attratta da Dean, Anna invece credeva che gli occhioni blu del bel biondo Yuri avrebbero rapito la nostra cara amica. Come sempre, avrei avuto ragione io, e non potete immaginare per i due mesi successivi che rottura di coglioni fu per me sentire Mena che voleva rivedere Dean, parlargli ancora. Era rimasta abbagliata, aveva perduto la testa, ok, ma doveva assolutamente usare me per i suoi lamenti? Sì, perché ero stato io a farglielo incontrare!
Furono due giornate splendide, quelle di Napoli. Arrivammo nel tardo pomeriggio alla stazione dove prendemmo la metropolitana, direzione Montesanto, poi ci incamminammo verso casa di Mena. Passammo per piazza del Gesù, che colpì particolarmente Dean, e da lì arrivammo subito a destinazione, affamati di cibo e di vita. Per la strada avevo predetto ai ragazzi che avremmo mangiato pasta col tonno ed una volta saliti su, dopo i sei piani senza ascensore con rampe disuguali, più morti che vivi, dopo i soliti saluti e baci e dovute presentazioni, Mena disse, “Avrete fame, facciamo un po’ di pasta? Sugo col tonno va bene?”.
Noi si scoppiò a ridere. Qualcuno andò a comperare del vino, altri che venivano e andavano ne portavano in dote dell’altro, c’era un viavai di gente interminabile in quella casa di nove donne. Inevitabile, no?
Avevamo vino sia bianco che rosso, sarebbe stato un bel dilemma, scegliere. Alternavo, in attesa di una decisione coerente. Il mio corpo resisteva bene intanto che una leggera ebbrezza iniziava ad infiammare il mio spirito. Si rideva e si scherzava, poi non so come venne fuori, tra una battuta e l’altra mi rivolsi a Dean, indeciso come me su cosa bere, e dissi, “Fai una cosa, metà rosso e metà bianco, così sciogli ogni perplessità!”.
“Perché no? Sempre vino è!”, rispose lui, e non aveva tutti i torti, del resto. Mentre gli preparavo il cocktail iniziavano a vedersi facce disgustate, meravigliate, sorprese, ma perlopiù tutti ridevano e commentavano la nostra assurdità.
“Se beve questa robaccia giuro che la bevo anch’io”, pensavo. Non esitò molto a prendere il bicchiere e buttarlo giù.
“Buono, però”, disse lui, intanto che anch’io avevo bevuto e mi accingevo a preparare i bis mentre i primi curiosi timidamente si facevano avanti per assaggiare quello che avevamo combinato. In breve finimmo a bere quella miscela tutti, tutti ubriachi, nessuno escluso. Non so in tutta onestà quanto gustosa poteva essere la nostra nuova bibita, la scena di sicuro fu memorabile. Riuscimmo a coinvolgere una ventina di persone nella nostra pazzia, noi, che allora, bevevamo solo per ubriacarci.
Eravamo liberi, spensierati, sbronzi, ed intanto a casa di Mena giunsero pure Tobia e Betty, la sua ragazza, con la quale avevo frequentato l’ultimo anno di elementari a Sant’Eugenio, l’anno del mio trasferimento, mentre lui era stato il mio vicino di banco al triennio del liceo a Battipaglia, e sebbene lui fosse di due anni più grande di me mi ha sempre come idolatrato; è un ottimo amico, Tobia, una persona veramente buona, come poche, un tantino ingenuo, timido, chiuso, impacciato, sempre insicuro, a volte un bambinone capriccioso ma tutto sommato un gran bravo ragazzo. Porta anch’egli come me addosso gli strascichi di spiacevoli incidenti di formazione, i suoi erano divorziati e lui la viveva malissimo, si chiudeva in sé, si perdeva nei suoi pensieri e non era cosa rara trovarlo incantato a smarrirsi nel vuoto. Gli voglio davvero bene, al vecchio Tobia, nonostante le volte che mi ha mandato in bestia con comportamenti assurdi, eccessivamente paranoici e fanciulleschi; rimarrà sempre tra quelli a cui non rifiuterei mai una mano nel momento in cui mi venisse chiesto aiuto, perché è solo in questo mondo troppo grande e difficile per quelli come lui, quelli che credono ad ogni cosa per sproporzionata naturalezza, quelli che sono presi di mira per essere fregati dal nemico invisibile che infetta la società. Ogni volta che mi prendevo gioco di lui non lo facevo mai con cattiveria, cercavo di fargli aprire gli occhi. Adesso lo avrà capito, ma quando eravamo meno uomini ci rimaneva male non poco, quando esageravo, sebbene lo facessi solo per il suo bene.
Eravamo rimasti solo io, Dean, Yuri, Anna e Mena quando si trattò di uscire. Molti erano troppo ubriachi, qualcuno tornò alla propria casa, altri si misero a dormire. Solo noi, gli irriducibili.
Ci fermammo prima a fumare qualche canna a piazza San Domenico mentre mi sembrava di stare nella mia città a causa dello svariato numero di persone di mia conoscenza che incontravo in giro. Avevamo portato con noi quattro litri di vino da casa, per non spendere altri soldi, e bevevamo. Dopo un paio d’ore ci spostammo a piazza del Gesù, continuando a bere vino e a far girare canne. La piazza era piena di gente, chi suonava, chi ballava, chi cantava, c’era chi accennava risse, chi con lo sguardo spento dell’eroina fisso su un muro o sulle proprie scarpe. Era Napoli, uno spaccato d’essa.
Dean era entusiasta di tutto, Yuri immortalato in uno sciocco sorriso ubriaco che non riusciva a levare dal suo volto: era strafatto dalla droga e dalla meraviglia della vita. Stavamo proprio bene, le ore trascorrevano, rimaneva del vino intanto che il fumo era finito ed io volevo vedere il mare. Quindi andammo al porto, ci sedemmo su un molo a chiacchierare. Avevamo tutti la sigaretta in bocca mentre l’ultima bottiglia girava misticamente come un prezioso oggetto sacro, passando di mano in mano. Il vino si mescolava con il sangue di ognuno di noi.
Arrivò l’ennesimo mio turno in cui c’era da dare solo l’estremo saluto: la bevanda era terminata. Feci l’ultima sorsata e buttai la bottiglia nel mare, dopodiché mi alzai, avanzai di qualche metro ed iniziai a pisciare. Yuri mi seguì a ruota.
Lasciavo scorrere fuori i miei rifiuti liquidi, il veleno che tiranneggiava nelle mie arterie si disperdeva nell’immensità del mare quando una voce sopra di noi disse, “Che fate lì? Venite un po’, forza, su tutti quanti!”.
Così facemmo, era la Guardia di Finanza. Salimmo le scale per raggiungere i due tutori dell’ordine.
“Che stai facendo?”, mi disse il più giovane dei due guardando la mia mano.
“Sto fumando!”, risposi.
“Che cosa? Lo spinello? Fai vedere a me!”.
“È una sigaretta!”, dissi ridendo soffiandogli il fumo appena inalato in faccia.
“Fatemi vedere i pacchetti di sigarette!”.
Porsi il mio, l’unico al quale non erano state staccate le alette per fare filtri. Il finanziere rimase male a constatare che il mio pacchetto era intatto. Gli altri avevano il pacchetto fracassato, e lo mantennero per la durata della lunga discussione ben conservato, per evitare di compromettersi, fumando le mie sigarette dopo che per migliaia di volte in passato ed in futuro si erano presi gioco della mia paranoia di non fare filtri col pacco di bionde. Ecco il motivo!
“Favorite i documenti, giovanotti!”, intimò il più giovane, fiero nella sua squallida uniforme. Volevano il fumo, o qualche pretesto per sfogare le loro frustrazioni. Stavano svolgendo il loro lavoro.
Penso che capirono subito dalla nostra tranquillità che davvero non ce l’avevamo, il fumo, eppure questo non li scoraggiò, anzi. Iniziarono a fare discorsi morali a me e Yuri perché avevamo pisciato lì di fronte alle ragazze, ed alle ragazze perché non ci dicevano niente per il nostro ripugnante gesto. Volevano sapere cosa facevamo lì, perché eravamo a Napoli, dove andavamo in giro ubriachi a quell’ora della notte e dove avevamo messo la droga. Yuri rideva, rideva, era l’unica cosa che gli riusciva, non ne poteva fare a meno, ubriaco com’era, e questo indispettiva non poco il giovane di fronte a noi, tanto che, seccato ed infastidito, gli aveva più volte rivolto la stessa domanda, “Che cos’hai da ridere?”, ricevendo ogni volta la stessa risposta: un’altra risata.
Era così strano per loro che quattro studenti, finiti gli esami, andassero a trovare un’amica nella città dove studiava, dovevamo per forza aver fatto qualcosa di illegale e loro era il compito di scoprire cosa nascondevamo. C’era grossa confusione, ognuno di noi parlava un po’ con l’uno e un po’ con l’altro senza mai arrivare a nessuna conclusione mentre la luna risplendeva sopra noi nell’immensamente ed infinitamente strabiliante grande notte napoletana.
“Voi perdete tempo con noi mentre nei vicoli là dietro minacciano, rapinano, sparano, e poi venite a raccontarci che state facendo il vostro lavoro! Con noi? Ma fatemi il piacere! Andate nelle zone calde dai boss malavitosi che passeggiano quieti nel loro quartiere, nel loro regno, e la notte dormono nella propria casa sonni tranquilli senza la coscienza delle vittime che hanno sulle spalle e la domenica vanno a messa e si confessano coi preti omertosi. Andate da loro! Non lo fate? E perché? Avete forse paura? È forse più semplice fare il forte con cinque studenti innocui ed indifesi che liberarci dalle cose eticamente e legalmente scorrette che corrodono le tubature di questa società malata e priva di senso civile, corrotta, come voi forze dell’ordine, come i politici…”, Mena era partita col suo infinito discorso, piangeva addirittura quando toccava le parti più profonde del suo sconclusionato ma purtroppo troppo giusto monologo, finché il finanziere l’interruppe bruscamente dicendole, “Stai zitta, tu, sei ubriaca!”.
“Io non sono ubriaca…”, rispose urlando, e mentre pronunciava queste parole le sue gambe cedevano e sarebbe caduta di lungo a terra se io e Yuri non fossimo stati lì vicino a prenderla giusto in tempo. Feci cenno a Yuri di allontanare Mena, porgendole una sigaretta per corromperla mentre sorridevo falsamente accordando il finanziere, “È ubriaca, abbiamo bevuto parecchio!”.
“Sei l’unico con cui si può parlare,” mi disse, “ed un po’ con lei,” indicando Anna, “gli altri tre proprio…”.
A quel punto, inevitabilmente, fu il turno di Dean, “Gli altri tre proprio…che cosa? Fai tanto il duro perché porti quella divisa e hai la pistola in tasca, non te la sapresti vedere da uomo a uomo…”, ed iniziò ad andarci giù pesante mentre dall’altra parte quello minacciava di andare a togliersi la divisa per affrontare il nostro matto Dean.
“Aspettami qui!”, lo ammonì incamminandosi verso la macchina. Voleva davvero andare a cambiarsi per sfidare Dean a pugni?
La situazione stava degenerando quando intervenne il tipo più anziano, meno giovane ed inesperto di quel galletto infumato che mi stava facendo passar via la sbornia. Il tipo prese Dean sottobraccio per calmarlo e si incamminarono mentre io cercavo di spiegare di nuovo le nostre ragioni con estrema calma e chiarezza al giovane ambizioso soldato della nostra patria che era ritornato senza essersi tolto di dosso la divisa.
“Scusa, rifletti un attimo, hai perfettamente ragione, lo so, ma lui è un po’ così. Abbiamo bevuto abbastanza stasera e siamo tutti più o meno ubriachi, ma non stiamo infastidendo nessuno, anche perché ci siamo solo noi e voi. Questo non è reato, mi pare. Volete il fumo? In tutta sincerità lo vorremmo pure noi! Abbiamo fumato l’ultima canna un’oretta fa, poi abbiamo cercato qualcosa ma non abbiamo trovato niente. Niente. Stiamo solo perdendo tempo, sia noi che voi. Siamo studenti, bravi ragazzi. Siamo ubriachi, ok, ma stiamo festeggiando la nostra libertà, la fine degli esami. È estate, siamo in vacanza. Non ti nascondo che avrei voluto fumare ancora qualche canna con i miei amici ma stai certo che se avessimo avuto il fumo non saremmo venuti qui, probabilmente ci saremmo ritirati a casa o saremmo restati a piazza del Gesù dove ci sono decine e decine di persone che stanno ancora arrotolando spinelli, ma nei quartieri non si entra, e poi dovreste sbatterli tutti dentro, ma non si può. Suvvia, smettiamola con questa farsa ridicola…”, proseguivo nel mio discorso mentre il finanziere mi ascoltava attentamente, quasi convinto dalle mie parole mentre Anna, Mena e Yuri si compiacevano della mia magnifica arringa. Sembrava fatta quando a rendere vano ogni mio sforzo ci pensò Dean.
“Adesso mi stanno iniziando proprio a girare i coglioni!”.
Ci voltammo inerti e sbalorditi a guardare il giovane Dean rivoltarsi in quel modo all’anziano pubblico ufficiale che se l’era portato a spasso per calmarlo. Senza ottenere alcun effetto, a quanto si poteva notare.
“È finita!”, pensai. E ci vedevo tutti e cinque in caserma, paranoie e fastidi di cui avrei fatto volentieri a meno stavano per schiaffeggiarmi. Non ricordo come fu, alla fine, dopo ulteriori strazianti discussioni, che chiarimmo ogni dissapore e ci ritrovammo a chiacchierare e scherzare con i due finanzieri. Fummo davvero grandi.
Lo sfogo di Dean non fu che un timido ed inconscio tentativo di resa. Aveva una situazione non troppo chiara con il ministero della Difesa italiano, una storia contorta; lui doveva essere in Belgio dai suoi genitori, non risultava in Italia dove sarebbe dovuto partire militare non avendo mantenuto il diritto al rinvio quando ancora studiava Giurisprudenza a Palermo, il periodo di sconvolgimento più assoluto della sua carriera: dopo aver abusato di psicofarmaci e lsd era caduto nella lugubre trappola dell’eroina. Il suo periodo più bello, per lui. Adesso ne è uscito da anni, ogni tanto rimpiange ancora quei tempi, ma siamo cresciuti e ci sappiamo regolare, ora. Non possiamo permetterci più certe cose.
Il Belgio gli dava un contributo economico per studiare all’estero ed era vincitore di borsa di studio all’università di Roma; così si è laureato, avrà finito entro il prossimo giugno, sarà dottore, uno psicologo, il più affascinante e meraviglioso e geniale psicologo dai tempi di Freud ad oggi. Una piccola truffa, anche se mi sembra eccessivo definirla tale. Gliela aveva fatta a due stati, aveva evitato di svolgere il servizio militare nella maniera più pulita ed onesta possibile, senza sporche intenzioni se non quella di lasciar volare sereno il suo spirito di libertà.
Era una consegna delle armi, o più appropriatamente una consegna alle armi, quella frase, Adesso mi stanno iniziando proprio a girare i coglioni.
Non ce la faceva proprio più, era un periodo difficile per lui ed era stanco di scappare, di essere sempre vigile a non imbeccare in qualche posto di blocco di carabinieri o polizia, gli era andata bene ogni volta, mai il suo nome venne inserito nel grande archivio telematico dei nostri cosmopolitici tutori dell’ordine. Un disertore, ecco cosa sarebbe risultato!
Cosa sarebbero stati, poi, una decina di mesi di carcere militare per il nostro Dean? Ne avrebbe approfittato per leggere, studiare, conoscere persone interessanti e, casomai, magari, scrivere persino quel libro di cui parlavamo un tempo. Forse ne avrebbe tratto solo da guadagnare!
L’estate scorsa, anche se con quattro anni di ritardo, Dean si è recato al consolato italiano in Belgio per cercare di riparare almeno in parte alle sue inadempienze, e pagare casomai le conseguenze delle sue azioni. Cosa ottenne in risposta?
“Sei stato grande, non so da dove tu l’abbia potuta tirare fuori ma hai fatto una cosa geniale. Non ti preoccupare, stai tranquillo, un paio di mesi e ti risolvo ogni cosa, ti metto io i documenti a posto, stai solo attento a non farti beccare in questo frangente se torni subito in Italia. Aggiusto le carte io, fidati. Sei veramente in gamba, amico!”.
Tornammo a casa. Avevamo vissuto un’altra strepitosa avventura, una gloriosa giornata di pazzia e divertimento. Stanchi ed esausti restavano da organizzare soltanto le sistemazioni per dormire la notte. Mena e Carla, la sua compagna di stanza, andarono nella camera di un’altra coinquilina che dormiva fuori, era andata a farsi scopare dal ragazzo, Anna occupò subito il letto di Carla e crollò nei suoi sogni, per Yuri venne tirato fuori un materasso che avevano appunto per gli ospiti mentre io mi misi nel letto di Mena. E Dean?
“Datemi soltanto una coperta che mi metto a terra, io, tranquilli, non c’è nessun problema”.
Durante quel periodo anche a casa sua a Roma, nella stanza che avremmo poi condiviso, Dean dormiva a terra, senza materasso, con un telo soltanto tra lui ed il pavimento freddo. Conoscendo le abitudini del mio amico, per convincere Mena e le perplesse inquiline, dissi, “Fa così anche a casa sua, davvero, lasciatelo perdere, e poi non farà male alla sua schiena. Anche io i primi cinque mesi a Roma, quando ero ospite da Jason e Rino, dormivo sul pavimento, ed allora non era per niente una mia scelta. Non trovavo casa, probabilmente perché non sapevo cercarla, o forse non mi ci mettevo proprio. Era un periodaccio, allora, mi ero lasciato convincere dai parenti ad iscrivermi all’università, ben sicuro del futuro fallimento, ma dovevo scappare da Marylin. Giunsi a Roma per caso, dopo che a Milano il cielo era troppo scuro, il sole non si affacciava mai e gli affitti erano troppo cari. Volevo vivere in una grande città, disperdermi nella confusione metropolitana, essere uno zero qualsiasi, volevo conoscere gente nuova ed interessante, ed inoltre era da poco che avevo iniziato a leggere Bukowski, a bere già avevo cominciato da parecchio e scrivevo pensieri e poesiole, avevo sempre saputo scrivere ma credo fu allora che iniziò a balenare nella mia mente l’idea di fare lo scrittore, di scrivere romanzi: l’atmosfera urbana mi avrebbe dato uno scenario interessante in cui ambientare la mia storia. Pensavo sarebbe stato tutto facile all’inizio, poi ben presto mi accorsi delle difficoltà a cui si andava incontro quando si ha intenzione di scrivere un romanzo a diciott’anni. Volevo scrivere il romanzo di me e Marylin, di quell’amore infinito, poi sono accadute tante cose e non so nemmeno perché sto qui a raccontarvi questo, mettiamoci a dormire, e per favore, lasciate che Dean si metta dove gli pare. Se vuole dormire sul pavimento saranno pure affari suoi, no? Buonanotte”.
L’indomani fummo svegliati chi prima e chi dopo dal sole caldo e dalle urla provenienti dalla strada, non era successo niente, a Napoli funziona così, a Napoli c’è sempre baccano. Il primo ad aprire gli occhi fui io, che dopo essere andato in bagno a cacare, mi rimisi sul letto, guardavo gli altri che dormivano e mi perdevo nei miei fantastici pensieri. Scrivevo, nella mia testa, ma non mi accorgevo di determinati processi mentali, all’epoca. Dopo circa una mezz’ora mi alzai, erano giunti al mio orecchio rumori di stoviglie. Quello che ci voleva era un buon caffè.
Quando mi alzai il mio pene era in posizione eretta, i miei pantaloncini erano gonfi ed io non potevo presentarmi certo di là con quella protuberanza anomala. Aspettai qualche minuto, cercando di non pensarci, in attesa che le cose ritornassero alla normalità. In cucina c’erano Carla e Teresa, un’altra coinquilina, una bella inquilina. Anche Carla aveva le cose buone messe al punto giusto. Era luglio, i loro vestitini minuscoli lasciavano intravedere carne.
“Sta’ buono, tu!”, intimavo in mente al mio gioioso pene che mi segnalava nuovi afflussi di sangue dalle sue parti.
“Ti va il caffè? Lo abbiamo appena fatto!”, disse Teresa avvicinandosi a me.
“Ma certo! Grazie!”, risposi, accavallando le gambe per nascondere le mie timidezze.
Bevemmo il caffè, poi mentre portavo una sigaretta alla bocca, Carla mi intimò di non accenderla dicendomi, “Aspetta, ti faccio fare una canna d’erba!”. Mi sembrava d’essere in paradiso.
Fumammo, mentre si chiacchierava della vita, dei luoghi, della gente. Intanto iniziavano a svegliarsi altre ragazze che abitavano in quell’appartamento, tutte poco vestite, quasi tutte belle. Nuovi caffè, nuove canne, intanto si svegliò pure Mena, le labbra rosse di vino, poi arrivarono altri ragazzi e le canne che giravano non si contavano più. Ad un certo punto mi alzai per andare in camera a vestirmi. Neanche il tempo di mettermi il pantalone e le scarpe che Dean balzò in piedi, agitatissimo, corse ad affacciarsi alla finestra, forse per capire dove si trovasse, o per prendere aria; questo dedussi dalla sua espressione.
“Ho fatto un sogno bruttissimo!”, mi disse, senza accennarmi null’altro.
“Ti ci vuole un buon caffè! Andiamo di là!”, intanto anche Anna si svegliava, pur restia ad alzarsi dal letto, mentre Yuri dormiva ancora beatamente, pacificamente, col sorriso scolpito nel volto ariano.
Ancora caffè, mentre Mena ad un tratto prese un paniere, mise dentro tre euro e lo calò giù dal balcone urlando verso qualcuno, “Signora! Signo’! Sei cornetti: tre a crema e tre a cioccolato. I soldi stanno dentro. Grazie!”. Dopo due minuti mangiavamo il cornetto. Ci sono cose possibili solo a Napoli. Forse l’odore del cornetto, o le batterie avevano fatto il pieno di riposo necessario, erano svegli pure Anna e Yuri, intanto che eravamo rimasti solo noi, gli altri andati via chissà dove. Stavo preparando l’ennesimo caffè per i due che si erano appena alzati quando Anna disse, “Ma una canna? Per fumare come facciamo?”.
“Date i soldi a Mena, ha già i miei, adesso va a prendere il fumo dalla signora qui dietro”, risposi.
“Da sola non vado! Non mi va! Voglio compagnia!”, rispose Mena mentre veniva dal bagno in fondo al corridoio.
“Ti accompagna Dean, vero?”, ribattei rivolgendo lo sguardo verso di lui.
“Ma sì, mi ci vuole proprio una bella passeggiata sotto il sole dopo il terribile incubo di stanotte!”.
Yuri non parlava, come assorto in cupi pensieri nonostante l’espressione ilare che traspariva sul suo viso. Quando tornarono col fumo iniziò la festa. Una canna dopo l’altra, baffi, carciofi, tre filtri, fino a che io e Dean inventammo una bottiglia che fummo costretti a fumare solo noi, dopo che i nostri tre compagni cedevano ad uno ad uno; soltanto io e lui, irriducibili, non conoscevamo il significato della parola basta.
Yuri fu assurdissimo. Durante l’intera mattinata pronunciò in tutto soltanto tre frasi, distanziate l’una dall’altra da infiniti silenzi e sorrisi di assenso ad ogni cosa, ad ogni parola pronunciata: “Il sole è proprio caldo, oggi…”, “Guardate il vento che sposta le foglie delle piante…”, “Sentite come cantano gli uccellini…”. Noialtri ci si guardava e si rideva allegramente colmi di una gioia di vita che non riuscivamo ad apprezzare appieno, frementi, alla ricerca di significati e di esperienze sempre nuove, innovative, non ne avevamo mai abbastanza, senza rimanere mai delusi, disillusi in partenza.
Tentammo invano di convincere Mena a scendere con noi a Sant’Eugenio ma non ne volle sapere trovando sciocche scuse che non avevano né capo né coda. Ringraziamenti, saluti, abbracci, baci e ci avviammo alla stazione a piedi, per far vedere qualche altro scorcio della città di giorno a Dean e l’oramai taciturno Yuri, gli strambi turisti che ci portavamo dietro. Poi ci venne in mente la pizza, dovevamo mangiare la pizza. Fu così.
Alla stazione, fatti i biglietti, ce ne capitò un’altra delle nostre, un nuovo incontro con dei tutori dell’ordine. Andavamo verso il nostro binario, quando una voce, “Giovanotti! Venite un po’ qui!”. Carabinieri, o polizia, non ricordo, non fa molta differenza.
“Favorite i documenti, forza!”. Questa volta stavamo tutti zitti, c’avevamo il fumo, ce l’aveva Dean nel portafogli che tirò fuori per mostrare i documenti.
“Da dove venite?”, disse uno degli sbirri.
“Roma”, “Belgio”, “Sant’Eugenio”, “Battipaglia”, rispondemmo contemporaneamente.
“Dove state andando?”, ci chiesero mentre le nostre risposte continuavano ad essere divergenti; eravamo quasi nei guai. Avevamo con noi la Les Paul di Jason, l’aveva lasciata non so perché a Roma e dovevamo scendergliela noi.
“Che cosa avete lì dentro? Aprite! Fateci dare un’occhiata!”, disse uno mentre voleva provvedere da solo a controllare il nostro bagaglio ingombrante ma non riusciva ad aprire la custodia e chiese aiuto ad Anna. Era solo una chitarra.
“Il passaporto ce l’hai?”, chiedevano a Dean che in tasca aveva il fumo di tutti noi ed un bel po’ di intima paura.
“No, veramente non sapevo che si dovesse portare dietro, mi dispiace. Ho solo quella tessera sanitaria lì come documento di riconoscimento”, Dean sembrava un agnellino, rispondeva ad ogni domanda con garbo ed educazione, non era la stessa persona della sera prima, niente affatto. Gli uomini in divisa scrutavano i nostri documenti come se contenessero chissà quali informazioni e segnavano sul loro registro i dati dei pericolosi criminali che stavano interrogando. Dopo aver constatato che si stava facendo tardi, rivolgendomi ad uno dei due, dissi, “Ma quanto tempo ci vuole ancora? Fra tre minuti abbiamo il treno, se lo perdiamo, una volta arrivati a Battipaglia non abbiamo coincidenze. Come facciamo? Vediamo se è possibile accelerare i tempi, per cortesia”.
Terminarono di compilare la scheda o non so che e ci lasciarono incamminare verso il nostro treno. Mentre andavamo via, uno dei due, con tono di rimprovero, disse a Dean, “La prossima volta che vieni in Italia porta il passaporto con te, e dillo pure al tuo amico che non parla italiano!”, si riferiva a Yuri, che non aveva spiccicato una sola parola durante l’intera conversazione.
Il treno era partito, Napoli lentamente si allontanava dietro le nostre spalle, noi volevamo continuare a vivere e ci saremmo riusciti. Ad ogni costo.
Scendemmo ad Eboli per prendere l’autobus che ci avrebbe portati a Pula perché in quel periodo vivevo l’ennesima crisi con mio padre, quasi non ci parlavamo ed erano due giorni che non rispondevo alle sue telefonate, per paura e forse un po’ per dispetto, per far crescere le sue preoccupazioni, che erano tante, ed in fin dei conti giustificate. A Battipaglia il mio papà era molto conosciuto e per evitare che qualcuno avesse potuto vedermi ed avvisare il mio vecchio che mi trovavo lì scendemmo alla fermata successiva, Eboli, dove si era fermato pure Cristo. Aveva preso il nostro stesso treno?
Alla stazione di Pula vennero a prenderci Jason ed Annalia, una ragazza abruzzese innamoratissima di lui che conoscemmo insieme un paio d’anni prima e con la quale avrei abitato per sette mesi dall’autunno che presto sarebbe venuto. Lasciammo Anna a casa dei suoi, poi Jason portò noialtri da me. Non c’era nessuno, la mia famiglia era andata in vacanza al mare, restava a nostra completa disposizione l’intero appartamento. Una volta saliti su facemmo a turno la doccia, mangiammo ed iniziammo a bere mentre consumavamo le ultime canne rimaste, ogni cosa era splendida, meravigliosa, perfetta. La vita ci sorrideva mentre noi ci prendevamo gioco d’essa. Mancava la tragedia che non si fece attendere.
Dean ha un rapporto controverso con il telefono cellulare, è solito non portarlo con sé quando esce lasciandolo spento a casa. Quando gli squilla il telefono è sempre a casa, di conseguenza. È facile capire quando puoi trovarlo. Quando va in giro lo abbandona a sé stesso per giorni, settimane, mesi, come quando dovevamo andare in Grecia e non sapevo come contattarlo, era impossibile, intanto che la mia vacanza sfumava, Dean mi era sfuggito di mano, era uscito fuori dal mio controllo e non sapevo dove trovarlo, mentre si stava innamorando di Maria. Cosa ne potevo sapere io?
La magnifica atmosfera in cui stavamo vivendo si frantumò in un istante. Dean ricevette una chiamata inattesa, mai voluta ricevere, nel breve lasso di tempo che accese il telefonino. Era morto suo cugino, il suo cugino prediletto, appena diciottenne quando la strada assassina lo aveva portato via con sé.
“Un pazzo,” diceva Dean, “ma di quelli giusti, un ragazzo in gamba, un tipo fantastico. Avreste dovuto conoscerlo, ci dicevamo che l’inverno prossimo sarebbe venuto a Roma a trovarmi, ma si sballava troppo, lo sapevo, fin da ragazzino aveva avuto sempre un certo talento per tirarsi addosso guai più grandi di lui, dovete sapere quante volte gli ho salvato la pellaccia, rischiando la mia, ma adesso non c’è più, se ne è andato. Mi sembra impossibile. Aveva brama di vivere, ogni suo istante, in ogni istante. Ora è morto. È morto. Non c’è più. Non ci sarà mai più. Sembra così assurdo. Non si tratta per niente di un brutto sogno, l’incubo di stanotte era un presagio, un avvertimento, ora è chiaro anche se questo non cancella questo dolore dentro che proprio mi sembra non riuscire a sopportare, è tremendo pensare che sia finita così. E tutte le cose che avevamo ancora da dirci? Avrebbe dovuto prendere me, al suo posto…”.
Piangeva, Dean, cercava di parlarci, di sfogare almeno una piccola parte del suo immenso dolore. Era straziante per me vedere quelle lacrime scorrergli sul viso, la pena tremenda infiammare le sue pupille disperate.
“Mi dovete scusare, ragazzi…”, insisteva nel dire, accusando sé stesso di insignificanti ed ignobili sensi di colpa mentre la sofferenza lo stritolava.
Le nostre parole, gli abbracci, non potevamo farci nulla, e per quanto cercassimo Yuri ed io di stare accanto al nostro amico, le distanze erano di dimensioni incalcolabili. Quello che mi faceva maggiormente male di quei terribili istanti non era tanto vederlo ridotto in quel modo dal suo dolore ma quanto il fatto che lui cercasse di giustificare i suoi legittimi stati d’animo, con frasi tipo “non vorrei rovinarvi la vacanza” e cazzate innominabili che Dean costruiva soltanto per stare peggio del peggio in cui era sprofondato. Yuri ed io non sapevamo cosa dire, quali parole avrebbero potuto essere di conforto, se esistevano parole di conforto, come tutte le volte che ci si trova in situazioni analoghe. Continuammo a bere. Cos’altro avremmo potuto fare?
Vedevo il mio eroe demolito dal grande dramma della vita e della morte mentre nella mia mente ricercavo le parole di consolazione necessarie, le parole introvabili, inesistenti, che mai nessuno riuscirà a coniare. L’animo umano è troppo complesso per essere compreso da un uomo comune, persino Nietschze è morto pazzo. Pazzo? Chissà cosa aveva compreso lui che noi non conosceremo mai!
Erano le undici quando ce la facemmo ad uscire. L’ebbrezza sinfonica dell’alcool distendeva apparentemente gli animi nonostante qualcosa per Dean da quel giorno sarebbe mutata per sempre. Raggiungemmo gli altri al Sombrero, da lì andammo a Pula dove qualcuno dei ragazzi aveva appuntamento con un tipo che ci avrebbe portato il fumo. Restai un quarto d’ora a parlare con J.J. Brown e Freddy Jungler mentre Dean e Yuri si integravano perfettamente nella comitiva tanto che si calarono quasi un’intera boccettina di Tranquirit insieme a zio Tom lasciando a me soltanto poche gocce quando ritornai da loro. Andava bene così.
Avevamo il fumo ma le bottiglie di vino erano finite. Occorreva organizzazione. Me ne avvidi io.
Si raccolse i soldi, qualcuno sarebbe andato a prendere birra in quantità industriali. Ritrovo come ogni sera la cappella di San Luca.
Sembrava una festa, era una festa, c’era gente che andava e veniva, gli spinelli viaggiavano in abbondanza, avevamo due bustoni di birre, Moretti e Peroni grandi, e chiunque arrivasse portava con sé altre Peroni e Moretti grandi. Birra a volontà. Birra a volontà. Birra a volontà.
La festa era stupenda, ogni più piccolo momento diventava eterno, si stava bene, le ore perdevano connotati, il tempo si annullava, esisteva soltanto il presente mentre si parlava solo di futuro e del passato si ricordava solamente ciò che di glorioso era stato vissuto; l’unico a morire dentro era Dean ma lo nascondeva alla grande. C’eravamo tutti, ed anche di più, mancava solo Mena, che era a Napoli, pensava a Dean, sognava un amore. Per fortuna fu un fuoco di paglia di un paio di mesi, per fortuna per me, dato che lei mi chiamava quasi tutti i giorni, voleva sapere di lui, era rimasta folgorata, voleva rivederlo, e via dicendo. Che palle!
Quando rimanemmo in pochi, gli eletti, Jason tirò fuori dal cilindro quello che sarebbe stato il piatto forte della serata: la Cocula è una specie di papavero dai petali violacei, si narra che un tempo venisse somministrato ai bambini sotto forma di tisana quando c’era da lavorare ai campi per l’intera giornata o per più giornate consecutive e nessuno poteva accudire i bambini. Bevete questa tisana, da bravi bambini, vedrete i sogni che farete, dormirete per tre dì, ininterrottamente.
Si erano ritirati tutti, gli unici rimasti fummo io, Dean, Yuri, zio Tom, Reb e Jason. Questi prese il bulbo del papavero e lo intaccò con il coltellino svizzero di zio Tom, i semi venivano fuori e venivano impastati con hascisc e tabacco: si fumava. Jason aveva visto quel fiore nel giardino di un’anziana signora proprio di fronte casa sua ma per avere ulteriore certezza che si trattasse proprio di quella quasi estinta specie di papavero, chiese un giorno alla nonna, “Hai visto quei fiori di fronte casa, quella specie di papavero viola? Ma cos’è? Non l’avevo mai visto prima!”.
“Stai attento con quei cosi, non li toccare, non ti avvicinare nemmeno. Con quelli fanno…come la chiamate voi giovani? La cucaina!”.
“Ok, ho capito, va bene, grazie nonna!”, rispose.
“È lei!”, pensò nel medesimo istante. La notte stessa scavalcò la rete di protezione per impossessarsi dei fiori che stavamo fumando. Non erano affatto male, rimanemmo lì per ore a raccontare fatti, storie, sogni. L’effetto ci assopiva: Jason si faceva spiegare da Yuri un certo modo di suonare le percussioni usato in Africa che dava l’impressione che la musica girasse, Reb era stanco e voleva ritirarsi, zio Tom stringeva sempre più amicizia con Dean; io ero lì attento osservatore smarrito nel mio eterno viaggio introspettivo: nasciamo nessuno, dobbiamo diventare qualcuno, innanzitutto. Io cos’ero? Cosa volevo ottenere? Probabilmente nulla, mentre mi lasciavo andare non trovando me stesso, non avendo alcun me stesso, disilluso, zero identità, drastiche possibilità, menzogne, banale viltà imperante in un mondo in cui non mi ci ritrovavo, romantico narratore di inizio secolo, il ventunesimo, il peggiore che mi poteva capitare.
Era ora di andare, si decise. Salutammo Jason, Reb e zio Tom e ci avviammo in paese a bordo della vecchia macchina di mia madre discutendo su cosa fare.
“Io voglio solo andare a dormire”, ripeteva Yuri ad ogni proposta. Lo portammo a casa ma noi non ne avevamo abbastanza, ancora frementi e frenetici di vita, malesseri e malattie.
“Andiamo a bere altre due birre, noi!”, disse Dean - e via di casa, di nuovo, nel cuore della notte, la tenebrosa notte, incontro l’alba di un magnifico giorno di lotta. Erano le prime volte che guidavo dopo oltre un anno e mezzo che avevo la patente, mi sentivo insicuro ma volevo portare Dean in giro per il desolato e desolante Vallo di Diano, la prigione che mi aveva rapito da bambino, da cui non avevo avuto esitazioni a scappare alla prima possibilità. Macinavamo chilometri mentre Dean sprizzava beatitudine da cui estrapolavo fondamenta per rinnovate sicurezze.
“Ma guidi bene, perché ti fai tante paranoie? Vai! Continua ad andare!”, era un angelo, Dean, senza dubbi. Ogni momento mi spingeva a credere in qualcosa di diverso mentre io non credevo più a niente, ci conoscevamo sempre meglio, ognuno a raccontare la propria storia, svelavamo i segreti più cupi ed interiori, ascoltarsi a vicenda era migliorarsi, stavamo crescendo, diventavamo grandi, le barriere che incontravamo le spazzavamo via come si consumavano le nostre sigarette. Il seme dell’amicizia piantato circa un anno prima era cresciuto, maturo per salire rinnovati gradini nella scala della conoscenza.
Trovammo un unico bar aperto in tutto il Vallo, a Pula, il bar dove aveva lavorato Anna prima di iscriversi all’università. Erano le cinque del mattino. Dean scese a comprare quattro birre, ghiacciate, proprio quello che ci voleva col gran caldo che bruciava dentro. Eravamo andati incontro l’alba ma quando le incappammo innanzi non la degnammo di sguardi né attenzioni, troppo presi da noi stessi, dal germe della follia che macerava nelle nostre vene ebbre di vita e di veleno. S’erano fatte le sei, la giornata era stata ben spesa, avevamo dato tanto e forse era il caso di ritornare. Yuri dormiva serenamente, stanco anch’egli della meravigliosa giornata che aveva voluto congedare mentre che a me e Dean restavano ancora forze per lottare, ancora forze per bere. Non esistono parole per descrivere i momenti sensazionali che si susseguivano e ci spingevano oltre i limiti, ansiosi di tutto ciò che era nuovo, bramosi di conoscenza, costantemente disposti a rischiare, mossi da una forza oscura, magica, inspiegabile, sublime: la vita. La vita!
La nostra crocifissione, le nostre tragedie, le maledizioni, le pene, le patologie, le sfortune, ogni catastrofe veniva messa via in un cassetto nascosto della nostra contorta psiche in quei momenti, quei momenti quasi gioiosi, quei momenti di magia che non riuscivamo a comprendere, in quei momenti, momenti di vita.
L’indomani Dean quando si svegliò mi trovò intento a scrivere seduto alla penisola che divide la cucina dal salone. Avevo buttato giù mezza bottiglia di gin diluito con del succo d’arancia: la mia colazione.
“Tu sei proprio pazzo!”, disse Dean vedendomi così, nel pieno di una nevrosi da risveglio che cercavo vanamente di placare con l’alcool, la più semplice delle soluzioni, la più pericolosa. Dean sorrideva di me, il suo sorriso era un piccolo dono di benessere e rassicurazione che ricevevo e trasformavo in volontà che non avrei mai creduto di possedere.
“Sai, mi ha fatto veramente bene parlare con te durante il lungo giro che abbiamo fatto stanotte, mi sento ripreso, più calmo, padrone delle forze maligne che mi si contorcono dentro, che mi vorrebbero far esplodere o impazzire definitivamente”, disse mentre io stavo preparando il caffè. Anche Yuri fu presto sveglio e tra noi.
“Ma a che ora siete tornati? Vi ho sentito nel sonno ma non avevo nemmeno la forza di aprire gli occhi. Che avete fatto? Dove siete andati?”, chiese.
“Siamo stati in giro per il Vallo, abbiamo percorso chilometri su chilometri. Guida proprio bene, l’amico, sai? Mi ha fatto vedere un sacco di paesini mentre cercavamo un posto aperto per prendere da bere e tutto era chiuso, poi alla fine abbiamo trovato un bar dove una volta lavorava Anna e abbiamo bevuto due belle birre fredde…”, rispose Dean. Si sentiva contento, euforico, positivo, nonostante il grande lutto che rodeva dentro di lui, mascherato con la maestria del grande attore, del grande santo.
Era finita. Yuri e Dean sarebbero partiti dopo qualche ora, mi avrebbero lasciato in quel luogo desolato, detestato, causa di affanni e mali, sbandate, riprese, ricadute. Tornavano a Roma per poi andare dalle famiglie che li attendevano, intanto io non sapevo dov’erano i miei e vegetavo tra le loro case, sciupando i loro danari sudati col lavoro e coi sacrifici. Non avevo nessuna ricompensa da dare se non la fuga, forse un po’ anche per far male, per immotivate inconsce bramosie di vendetta, ingiustificate ed ingiustificabili. Avevo l’impressione di aver perso il controllo su ogni mia decisione, come se la vita mi fosse stata sfilata tra le mani non appena mi era parso di averne assaporato lievemente il succo. Mi sentivo impotente, inerme, inesistente.
Era l’inizio di un’estate di incertezze ed indecisioni, di lunghe meditazioni sulle scelte sbagliate che avrei fatto in futuro: restavano poche possibilità, dovevo dare una svolta, trovare la mia strada, la via maestra, aprire le porte che avrei trovato davanti, persino quelle all’apparenza inaccessibili, svelare ogni disinganno soltanto per il desiderio della scoperta e della conseguente delusione, per compiere nuovi miracoli, estremi sacrifici, demolire sogni ed essere invaso da ignoti incubi ultrasensoriali.
Raccogliemmo la spazzatura accumulata in quei due giorni, un mare. Eravamo pieni di rifiuti, di vuoti a perdere. In quel periodo a Sant’Eugenio iniziava la raccolta differenziata, il paese si stava evolvendo, si sviluppava. Riempimmo due grossi sacchi neri mischiando rifiuti organici ed inorganici, carta, vetro, plastica, e li portammo con noi a Pula, dove li posammo in un bidone sperso nella campagna sulla via per andare alla stazione. Gli ultimi istanti insieme prima della lunga estate di lontananza, la nostalgia padroneggiava sulla magia circostante ed il silenzio era un mare di calma e pace totale dove chissà se mai riusciremo a vivere. A vivere. Come si fa a vivere? Le distanze, i confronti, le cose taciute. Occorrono corazze più forti, scudi che realmente proteggano dal fango e dal buio che ci opprimono e ci fanno sentire incatenati, come in prigione, una prigione da cui non riusciamo ad evadere.
I capi d’accusa erano caduti, il motore della giustizia s’era inceppato: nessuna colpevolezza e condanna infinita, sfaccettature non considerate, misere peregrinazioni avvolte di misteri svelati, accondiscendenze varie, sempre, per evitare ogni minimo dibattimento, ogni scontro o conflitto, i soliti disfacimenti, vedute offuscate, pianure sterminate, intanto che diventavamo grandi, eravamo quasi uomini, uomini che lottavano per la propria indipendenza, per la libertà. Assente ogni più subdola forma di sottomissione, ci trovavamo in lotta con eccessive dipendenze e vizi pericolosi, buone e cattive compagnie: avevamo in mano la fede e l’amicizia, la fiducia e dio. Eravamo poveri ma splendenti, eravamo speciali.
Arrivammo alla stazione abbandonata dei treni dove Yuri e Dean avrebbero preso l’autobus che li avrebbe condotti a Battipaglia, da lì il treno, cambio a Napoli, e via alla volta della capitale. Ogni volta che si va da qualche parte e si ritorna, per partire ancora, per viaggiare sempre, mai stanchi di nuovi posti da visitare o di luoghi conosciuti, basta che si cambi, si vada alla ricerca di qualcosa di diverso, di distaccato dalla routine urbana di ogni incantevole giorno di crocifissione, verso persone da andare a trovare, persone da incontrare, nuove conoscenze, nuovi arrivederci ed eterni addii in cerca di un costante movimento, purché ci sia una partenza, il viaggio, esperienze, sconfitte necessarie e paludi da cui non avremmo mai creduto di poter uscire vivi. La necessità del ritorno al nido per una nuova fuga.
L’ultimo ricordo di quei giorni lo conservo ancora nel cassetto del comodino nella mansarda della casa di famiglia, è un accendino arancione oramai senza più gas che mi ritrovai in tasca mentre Dean e Yuri mi salutavano dal finestrino del pullman, l’accendino di Dean. Non appena me ne avvidi feci come il gesto di volerglielo ridare ma il potente automezzo si stava allontanando, l’espressione sul viso di Dean mi diceva di non preoccuparmi, di tenerlo, non importava. I miei amici intanto diventavano sempre più piccoli, offuscati nel loro splendore dal vetro opaco e sporco mentre lentamente andavano smarrendosi in fondo al viale, per sparire dietro la prima curva. Non li vedevo più, strinsi forte nella mia mano l’accendino, poi presi una sigaretta, l’accesi ed entrai in macchina. Avrei voluto partire veloce, inseguire il veicolo che mi stava sottraendo quei pochi istanti di beatitudine appena vissuti ma già discosti. Una morsa leggera mi pizzicava il cuore.
“Ci vediamo a settembre…”, fu il mio ultimo tragico pensiero vedendo la strada vuota, la strada che mi stava privando del benessere che mi aveva sfiorato impercettibilmente l’animo.
Misi in moto e tornai a casa.

Dio è distratto-

lunedì 24 marzo 2008

Dio è distratto



Gianluca Liguori

Dio è distratto.



È il giorno di Natale, oggi, e quasi tutti si sono appena alzati da tavola, o sono ancora al dolce, o all’amaro. Io ho appena terminato il mio banchetto, dopo aver preparato il mio cibo in nemmeno un quarto d’ora: occorre non sprecare tempo. Salsicce economiche di suino e tacchino con pomodori e formaggio per contorno, non avevo pane fresco ed ho terminato quello duro di ieri: il mio favoloso pranzo natalizio. Ho accompagnato il mio desolato pasto con una bottiglia di vino buono della mia zona, come un’eco della mia terra lontana, una bottiglia di Aglianico quasi terminata, ma non ho da preoccuparmi, avevo provvisto alle scorte, mi ero ben organizzato dal momento che sapevo di dover rimanere qui a Roma senza nessuno durante queste due settimane di vacanze. Natale nella capitale, in perfetta sintonia con la mia solitudine. Sono le cinque del pomeriggio, il pomeriggio di Natale ed io non ho alcun Natale da festeggiare. Sono solo. Finalmente solo.
Abito in via Roberto Malatesta 39, nella più fantastica dimora in cui abbia vissuto da quando sono a Roma, e ne ho cambiate parecchie, almeno sette o otto, ho perso il conto, in questi quattro anni, e tra non molto dovrò abbandonare pure quest’altra casa: sono un pianeta che gira su sé stesso e attorno e dentro l’universo, scrittore vagabondo disperso tra le arterie della più eterna delle città eterne. Roma è oramai il mio paese, il mio luogo, la mia casa; ho rinnegato le mie origini, mi sono estirpato dalle mie radici, ho ferito mia madre e mio padre unicamente per amore di questa città magica: Roma infinita, Roma perversa, Roma diabolica; Roma Santa.
Divido la mia camera dipinta di blu con il cervello più grandioso che abbia mai conosciuto, la mente più pazza e irrequieta come nessuna prima mi si era imbattuta incontro. Mi ricordava il mitico Dean Moriarty di Sulla strada ed è probabilmente questo il motivo per cui mi sono sentito legato a lui sin da principio: il nostro incontro, la sua conoscenza, hanno portato lo stesso tipo di devastazione su di me come già fu una volta il Santo Neal Cassady per l’uomo e lo scrittore Jack Kerouac, o qualcosa di simile. Se io sono un grande scrittore, vivo con Dean Moriarty, un Dean Moriarty più colto e più erudito, che sa tutto-tutto su Nietschze e non ha bisogno di altro che di sapienza, un solitario che soffre di solitudine, un antisociale, un filosofo che non parla, scappa via dalle masse e si erge a difensore dei deboli, degli oppressi, ma sempre e comunque Dean Moriarty, sì, Dean, il folle, il folle Dean, e sono già tre mesi che condividiamo il tetto, Dean ed io, nonostante le presenze più o meno piacevoli che ci vivono intorno. Ne abbiamo vissute insieme parecchie da quel lontano giorno di tre inverni fa, di tre inferni fa, mentre adesso, da quando riponiamo il sonno nello stesso asilo non esistono più quelle uscite e quelle giornate meravigliose, quelle infinite dissertazioni a cercare chissà cosa, i progetti e le idee, le avventure, i sogni, i viaggi, brillanti e folli e santi di cristallo da quattro soldi; qualcosa si è perduto, resta soltanto di rado qualche serata tra infiniti sorsi di vino e spini senza risparmio per glorificare il sacro scorrere del tempo, e tanta, troppa nostalgia dei tempi andati: quando ci sentivamo giovani. Dean è nato l’8 febbraio, esattamente come Neal: le coincidenze, i presagi, le sfiorate verità.
Vivere insieme a Dean è quanto di più eccitante e rassicurante per il mio spirito ansioso di fuga, il suo bruciare è nutrimento continuo per la mia creatività, per la mia arte; mi alimento della sua genialità soffocata, della sua poesia inespressa, come se lui fosse l’artista muto per definizione, anzi no, lui è l’artista muto, l’artista senz’arte, l’artista totale, la sua vita non è che la sua opera mentre io da parassita trasformo la sua ineluttabile ombra in immortali volontà.
Dean fa disegni fantastici ma adora troppo la pittura ed i grandi geni del passato per potersi rendere conto della sua magnificenza, avrebbe bisogno di sicurezza più di quanto possa immaginare.

( dall' incipit )

mercoledì 19 marzo 2008

Da aprile on-line e da maggio nelle librerie...




Gianluca Liguori

Credo in un solo io

( di politica, d'introspezione, d'amore e di tristezza )

Casa Editrice Tespi