sabato 6 dicembre 2008

Nuovo appuntamento al Pigneto

Venerdì 12 dicembre
ore 20.00
Cineclub Alphaville
via del Pigneto 283

"Scrittori precari": letture di Simone Ghelli, Gianluca Liguori e Luca Piccolino

sabato 25 ottobre 2008

Nuovi appuntamenti

22 novembre ore 18:30

PRESENTAZIONE DEI LIBRI:

"CREDO IN UN SOLO IO”, Tespi 2008, di Gianluca Liguori“

LAVORARE STRONCA”, Tespi 2008, di Andrea Coffami e Angelo Zabaglio

C.S.O.CANTIERE – Via Monte rosa 84 Milano

INFO SU: www.myspace.com/cantieremilano

27 novembre ore 19: 00

Gianluca Liguori, Angelo Zabaglio, Andrea Coffami e la special guest star Lady Oscar leggeranno un po' di cazzi loro per divertirci insieme bevendo e mangiando cose buone. Un'occasione simpatica per incontrarsi.

Info su: www.myspace.com/zammu

Trovate i libri su www.tespi.it

domenica 5 ottobre 2008

Nessuno pagherà

La crisi economica avanza a gran passi. Lo sfacelo di una nazione, di un popolo con potenzialità immense, offuscato da una corruzione nelle stanze del potere come non si era mai vista dalla fine della guerra, è ben limpido davanti ai nostri occhi. Basta aprirli. In due generazioni si è rovinato tutto. Siamo una repubblica giovane. Le responsabilità di una classe politica incivile sono pesanti, ma per come stanno andando le cose, nessuno pagherà. Nessuno pagherà.
Bisogna ricostruire. Bisogna lavorare per un cambiamento. Bisogna creare una coscienza collettiva che si è smarrita, se mai è stata. La comunicazione e l'informazione hanno perseguito reato. È un colpo di stato, subdolo e invasivo. A volte gli allievi superano i maestri, e i maestri se ne compiacciono. Tutto quello che abbiamo oggi era stato già progettato ieri. Tutto quello che abbiamo oggi è stato già giudicato e condannato. Tutto quello che abbiamo oggi è una pagina vergognosa nella storia della democrazia. E nessuno pagherà.
Lavoro, giustizia, salute, istruzione, cultura: tutto va a puttane. E le puttane vengono utilizzate per gli spot pubblicitari di regime. E le puttane sono ragazze a cui hanno mutilato la dignità, sono ragazze private di libertà. Sono vittime. Le puttane sono vittime due volte. Dovrebbe essere lo stato, la società, la collettività, con uno slancio di solidarietà, a proteggerle, e non uomini che lucrano e le trattano come merce, per il profitto. La logica del profitto è una logica perversa. Si ammazzano uomini e donne, quasi sempre innocenti, vittime di un sistema. E nessuno pagherà.
Possiamo parlare di razzismo, e di come questo viene strumentalizzato. Abbiamo raggiunto livelli di xenofobia preoccupanti. Come al solito la cattiva informazione agisce e veicola coscienze già sbandate e si urla allarme sociale mentre è fomentata la paura del diverso. E la politica e il potere stanno là, magari qualcuno si fa pure un risolino sotto i baffi. E nessuno pagherà.
Non cambia. La situazione è destinata a peggiorare. Il popolo dovrebbe prendere coscienza e protestare, ma l'unica cosa che scatena la protesta è il rinvio del campionato di calcio. Siamo ridotti male. La domenica è il giorno del pallone. E così il lunedì, il martedì, e dopo il campionato le coppe europee, e poi di nuovo domenica. E mentre si parla di calcio, solo di calcio, ci imboccano di pane e calcio dall'adolescenza alla pensione, alla morte, mentre perseguitano la politica del malaffare. Spesso si sottovaluta la pericolosità del calcio come anestetico sociale. Il male è radicato. L'emozione è snaturata. E andiamo sempre peggio. E nessuno pagherà.
La storia d'Italia attraverso la storia del calcio. È una prospettiva interessante da studiare. Lo avevano capito già dagli anni trenta, o giù di lì. Ci sono troppe coincidenze, e troppe coincidenze cosa vorranno dire? È storia contemporanea. Già, la storia contemporanea. Il popolo ha perduto la memoria storica, e quando un popolo perde memoria storica lo sappiamo come va a finire. Perché il guaio è che noi che leggiamo, noi che scriviamo, noi che sappiamo ancora essere solidali, noi sognatori, noi che crediamo nella giustizia, un noi ampio che arriva a comprendere, noi, sì, noi, proprio noi dobbiamo essere bravi, capaci, attraverso la parola, il racconto orale, la narrazione, la discussione, con la forza delle idee, con la parola, noi, noi dobbiamo svegliare. È compito di tutti. È una questione di civiltà. E magari poco a poco, si può cambiare. Si deve agire con la parola. Ci vuole tempo, forse tanto tempo, ma ce la si può fare. Se oggi siamo due, domani saremo quattro. E quando finalmente saremo tanti, in tanti, magari troviamo le forze di lottare. Perché non avremo più paura. Perché io un po' di paura ce l'ho, ho paura che nessuno pagherà.
La terza Repubblica potrebbe partire anche da qui. La discussione è aperta. Sta a noi. Io da solo non posso fare niente. Sono impotente, esattamente come te. Ma noi possiamo fare qualcosa. La discussione è aperta.

domenica 10 agosto 2008

Identità III


La nostra storia comincia con un dialogo. Anzi no, prima del dialogo c'è un uomo, in casa sua, nella cucina. Ha appena finito di mangiare e sta lavando i piatti. Quando ha finito si siede davanti al televisore, pensa ad altro mentre sbriciola una cimetta di erba verde con dei filamenti rossicci, a cui aggiunge del tabacco e poi mischia bene, prende un pezzo di cartoncino e l'arrotola, poi stacca una cartina dal pacchetto di grigie slim, su cui deposita l'impasto, appoggia il filtro all'estremità sinistra della cartina, gira, lecca, ed ecco pronta la sua sigaretta. Si versa ancora mezzo bicchiere di vino, ne ingolla un sorso. Accende la sigaretta, aspira. Pensa a lei che è andata via. Espira. Aspira, espira. Butta giù un altro sorso. Cambia distrattamente i canali, ancora un sorso, e lascia sul terzo canale dove trasmettono uno speciale sulla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Vede il presidente Pertini straziato e pensa alla grandezza di quell'uomo, immenso, ma così incapace dinanzi a tanta mostruosità. Aspira, espira. Poggia la sigaretta nella ceneriera, beve un altro sorso, poi si alza e va vicino al telefono, nell'atrio della casa, strappa una pagina dell'agenda, prende una penna e torna in cucina. Si siede al tavolo, manda giù l'ultimo sorso e si riempie nuovamente il bicchiere. Prende la sigaretta, ravviva con la fiamma la punta, aspira. Suona il citofono. Espira. “Chi sarà mai a quest'ora?”, pensa dentro di sé. Poi si alza e va a rispondere.
“Chi è?”.
“Io, apri”.
Aspira, poi va ad aprire la porta e torna in cucina. Espira. Prende un altro bicchiere e lo mette sul tavolo. Ritorna nell'atrio e vede la porta aprirsi lentamente. Adesso comincia il dialogo.


“Ciao, allora? Come va?”
“Si combatte, te?”
“Sto a pezzi. Non mi passa”
“Sempre il solito, guarda, non la molli eh?”
“Vuoi un bicchiere, sì?”
“Non si rifiuta mai”
“Senti quanto è buono”
“Rosso di Montefalco...sei andato in fissa coi vini umbri ultimamente!”
“Devo dire che mi piacciono molto”
“Che stavi facendo?”
“Un cazzo...ho appena finito di mangiare, ho lavato i piatti, adesso stavo fumando questo spino, tieni...”
“Giusto due tiri, per compagnia. Non fumo da oltre due mesi, credo sia stato con te l'ultima volta”
“È erba, è buona”
“Non male...stavi scrivendo?”
“Perché?”
“No, è che vedo la penna, il foglio...”
“Non lo so, ero andato a prendere le armi, ma non so se ho le forze ancora di combattere, avevo visto Pertini, la strage di Bologna, e non so...poi hai citofonato, e meglio così...si vede che era destino...”
“Non stai scrivendo niente?”
“Qualche poesia, niente di che...abbozzo racconti...ho le idee, ma poi non le trascrivo...”
“Come mai?”
“Il tempo, sempre il tempo...che poi forse non è vero, è una scusa, non lo so, da quando lei è andata via non ci riesco...mi sento svogliato...”
“Prima ti lamentavi di lei, ora ti lamenti che lei non c'è...sei assurdo!”
“Lamentarsi è bello...”
“Ti piace, ti è sempre piaciuto...”
“Effettivamente...”
“Che lei sia una scusa...o forse lo è sempre stata...hai sempre trovato una scusa diversa, ma il lamento è sempre stato costante”
“Non ne posso fare a meno!”
“Nemmeno a questa roba...ne fai già un'altra?”
“Mi piace...mi piace fumare...pensa che continuo ancora a fumare prima di andare al lavoro, mi sveglio sempre quel quarto d'ora prima, ti ricordi?”
“Certo che mi ricordo, per certi versi non cambi mai”
“Il fatto è che non mi fa assolutamente nulla, non mi preclude nulla...è per il gusto...”
“Sei assuefatto...”
“Sarà...ma finché posso, fumo...non me ne frega niente...ancora vino?”
“Sì, riempi.”
“Te come va?”
“Solito. Marie è andata dai suoi a La Rochelle per una settimana, ed io mi godo un po' di libertà...”
“Non ti invidio per niente. Io non faccio che pensare a lei”
“Hai ragione, scusami”
“Ma di che? Figurati, anzi fai bene...devo dimenticare, superare questo momento buio...AH AH AH...ho ricominciato a lamentarmi!”
“Ah ah ah!”
“Ah ah...non riesco proprio a farne a meno...”
“Hai scritto qualcosa su di lei?”
“Macché...niente...se voglio scrivere di lei mi blocco totalmente in maniera irreversibile...”
“Passerà”
“Senz'altro”
“Stanne certo”
“Vado a prendere un'altra bottiglia...che preferisci Nero d'Avola o Syrah?”
“Mmm...Syrah”
“Aggiudicato! Ma hai mangiato?”
“Sì tranquillo...prendi il vino...il vino è nutrimento per l'anima...”
“Caro amico, io l'ho sempre sostenuto che sei un grande poeta!”
“Il poeta sei tu”
“Io sono poeta perché scrivo...tu sei poeta, anche se non metti una riga su carta!”
“Smettila di dire cazzate e vai a prendere il vino!”


Chi sono i nostri due personaggi? Due vecchi amici, a quanto pare dal dialogo. Volete saperne di più? Silenzio, ascoltate, ecco che ritorna dalla camera con la bottiglia di Syrah. Sssshhh...


“Questo è molto buono...l'hai bevuto?”
“Sì, lo conosco!”
“A cosa brindiamo?”
“A cosa vuoi brindare? Abbiamo brindato già a tutto...”
“No, no, non essere pessimista...c'è sempre qualcosa per cui valga la pena di brindare...vogliamo brindare a Marcella che se ne è andata?”
“Non ti sembra sprecato? Ce l'hai sempre in testa!”
“Brindiamo alla vita...così di merda, ma così straordinariamente divertente...”
“Vaffanculo a questo mondo di merda! Dovremmo bruciarlo!”
“Ah ah ah...ti stai riprendendo...alla rivoluzione!”
“Ma quale rivoluzione?”
“La nostra rivoluzione!”
“Io sarei più per un piano eversivo...”
“Alla distruzione totale!”
“A Baudelaire!”
“Sì, sì. a Baudelaire...mi piace...”
“Sì, anche se pure lui era un fottuto borghese...”
Andiamo a fucilare il generale Aupick!, gridava dalle barricate...Aupick era il marito della madre, quello che gli aveva bloccato l'accesso ai soldi del padre e che lo aveva imbarcato su una nave...”
“Sì, e lo aveva fatto processare perché pazzo!”
“Pazzo poeta...Ahi, avessi partorito un groviglio di vipere piuttosto che nutrire questa derisione! Maledetta la notte e il suo piacere effimero, che concepì il mio ventre la mia espiazione!”
“Qual è?”
“Bénédiction, la poesia che apre I Fiori del Male. La madre del poeta impreca dio per avergli fatto concepire il poeta, malsana e brutta creatura. L'ho messa pure nella tesina di quinto liceo!”.
“Sì, me la ricordo”
“La poesia o la tesina?”
“Tutte e due!”
“Sai che pensavo? Che avessi un patrimonio da sperperare come Baudelaire, e tutto il tempo a disposizione, senza dover lavorare, forse sarei stato ancor più grande di lui...”
“Tu sei pazzo!”
“Ma non eri tu il pazzo?”
“Eravamo pazzi tutti e due, ma poi io sono rinsavito...”
“Anch'io sono rinsavito! Ti ricordi come ero prima? Prima del romanzo, quando stavo male....ti ricordi il mio dolore? Ti ricordi il mio dolore? C'è una canzone di Fumaretto che canta così...quell'uomo è un genio, devo assolutamente farti ascoltare il suo cd...”
“Che fa?”
“È un pazzo, suona il pianoforte battendo forte sui tasti e urla e canta...la donna è una superpotenza che ti vuole convertire con l'amore preventivo...la donna alleata coi ladri...e i ladri dettano legge...VENITE ASSASSINI, VENITE ASSASSINI, UCCIDETE I LADRI E LE DONNE...
“Li trovi tutti tu...”
“C'ho il fiuto...e poi sono convinto sempre più che di uomini validi ce ne sono...il guaio è che sta ognuno rinchiuso nel personale combattimento della vita quotidiana...non c'è pace...la situazione è critica, bisognerebbe far qualcosa...”
“Non cambi mai...ti invidio, sai? Sembra che per te il tempo non passi, sei sempre lo stesso, hai sempre le stesse idee, sei l'unico che non si è venduto...”
“Ah, se è per questo io mi sono venduto più di tutti quanti gli altri...”
“Non fare l'idiota, sai bene cosa intendo...”
“Non mi piacciono i discorsi seri...preferisco ridere, far ridere, la battuta ad ogni costo...è più forte di me...non esiste niente di serio...”
“Su questo non ne avevamo mai avuto dubbi, no?”
“Io ne faccio un'altra, e riempio i bicchieri, che a quanto pare, piangono...”
“Fate bere gli assetati...”
“Il vino, il vino è vita, è sangue, senti il sapore dell'uva? La terra, il sole di Sicilia, la tua Sicilia...quando è che ritorni a fare un giro a Palermo?”
“Bah...non so...vorrei tornarci...sono tre anni che ci manco...”
“Sono successe un sacco di cose...”
“Eh già...”
“Ricordi quella volta che ubriachi ci siamo menati...che botte!”
“Bei tempi!”
“Pensi che dovremmo tornare a menarci?”
“Penso di sì, ci farebbe bene”
“Non so se ci riuscirei”
“Dammi un pugno...”
“No, no...”
“Dammi un pugno!”
“Non ce la faccio...”
“Hai paura?”
“No, non è paura, è solo che non ce la faccio...”
“Cosa ti blocca?”
“Ti voglio bene, sei un amico, uno dei pochi che ho, non riuscirei più ad alzarti le mani contro...”
“Io dico che ci farebbe bene, non trovi?”
“Non lo so...sono cresciuto...”
“Un cazzotto è sempre un cazzotto, a qualunque età della vita...”
“Non ne vedo il motivo”
“Forse hai ragione, è forse che io sento di avere bisogno di un paio di pugni in faccia, di quelli belli tosti...”
“Su, dai, non dire così”
“Ti giuro, mi sento di impazzire...ma che vita facciamo? Me ne voglio andare all'estero...”
“Ovunque è lo stesso, non credere”
“Non è vero...prendi in Francia, da Marie...”
“Vuoi andare lì con lei?”
“Può darsi...ci sto pensando...”
“Sei in gabbia, amico”
“Lo siamo tutti, chi per un verso, chi per un altro...”
“Sì, ma così ti scavi la fossa da solo...molli tutti e tutto...”
“Non ho niente, e nessuno...ho lei...”
“Quando stavo con Marcella la pensavo come te, l'avrei seguita ovunque...oggi come oggi sono convinto che mi sbagliavo”
“Ma torneresti con lei...”
“Ad esser sinceri non lo so...”
“Dì la verità...”
“Non sto mentendo, giuro, perché dovrei?”
“Non mi convinci”
“Davvero, in fondo credo sia meglio così...”
“Però stai male...”
“Quella è un'altra cosa...”
“Ma è la stessa...il tuo dolore è dovuto alla sua assenza, asserire il desiderio che lei non torni, vuol dire desiderare il suo ritorno”
“È meglio così, credimi...”
“Ti piace star male...”
“Probabilmente”
“Si sarà fatto tardi...che ora è?”
“Non so...resta un altro po'...finiamo il vino...non si lasciano le bottiglie a metà!
“Li ricordi i miei insegnamenti, vedo”
“Ma se ero stato io ad insegnarlo a te!”
“Ma va...va...”
“A cosa brindiamo?”
“Brindiamo a Pasolini!”
“Brindiamo a Pasolini!”
“A Totò!”
“A Totò, il principe del sorriso!”
“L'hai visto Uccellacci e uccellini?”
“Sì, ci sono riuscito, e mi è piaciuto!”
“Ci sono riuscito nel senso che non ti sei addormentato?”
“Esatto! Sei perspicace nonostante il vino...”
“Lo sono sempre stato, e l'ho sempre retto il vino, anzi spesso il vino ha retto me, mi ha sorretto...”
“Dovresti scriverle queste cose...”
“Fallo tu!”
“Ma io li dimentico sempre, i dialoghi...così come le battute che continuamente sparo, quando sono in vena...”
“Anche quando non sei in vena...”
“Sì, ma poi non me le ricordo mai”
“Dovresti scriverle!”
“Lo dico sempre e non lo faccio mai”
“Incomincia a farlo”
“C'era un periodo in cui Marcella prendeva nota delle cazzate che dicevo...ma poi ci ridevamo insieme, e non scrivevo, e non le utilizzavo, credo che li abbia lei, quegli appunti...”
“Ancora con Marcella...vedi che ho ragione io...”
“Forse sì, ma come si fa?”
“Non ti ricordi come si fa? Hai perduto la memoria?”
“Forse sono più provato di un tempo”
“Ma smettila...quasi non ti riconosco...che fine ha fatto il grande scrittore?”
“Già...che fine ha fatto il grande scrittore?”
“È dentro di te. Dove sempre è stato”
“Sì, ma è come se lo scrittore avesse ucciso i suoi personaggi”
“Così come li ha uccisi, può riportarli in vita!”
“Non ho più le forze...voglio lasciarmi scorrere l'esistenza così...ho già scritto abbastanza...”
“Abbastanza? Ma che cazzo dici?”
“Forse i poeti dovrebbero avere sempre vent'anni...”
“I poeti hanno sempre vent'anni, i poeti non hanno età, non hanno tempo...ti ricordi?”
“Fatico a farlo”
“Sforzati!”
“Siamo all'ultimo bicchiere di vino”
“E cambi argomento!”
“E torno sempre là...”
“Ma ti rendi conto del dono che hai...perché sprechi i tuoi giorni? Perché sperperi il tuo talento?”
“Per la distruzione...forse per me era più importante capire che avrei potuto riuscirci, piuttosto che sforzarmi per riuscirci davvero...”
“Non ti riconosco più”
“Anche io fatico sempre più spesso a riconoscermi...”
“In che senso?”
“Quando mi guardo allo specchio, e non sono più io, non sono me stesso, sono mutato, mi sono trasformato lentamente, a poco a poco, e adesso che sono diverso da quello che ero, e non so più chi ero, e nemmeno chi sono ora...non so se riesci a capirmi, se riesco a spiegarmi, la situazione è molto complessa”
“Intuisco qualcosa...”
“Si tratta del tuo lavoro...cosa ne pensa, dottore?”
“Smettila di fare il coglione, e parlami di questa storia”
“Allora...hai presente quando...anzi no, hai presente la merda?”
“Che c'entra la merda?”
“Niente, era così per dire”
“Non ti va di parlarne...come sempre ti limiti ad accennare le cose, e poi tergiversi, disciplina in cui tu sei un campione...”
“Quanti complimenti...salute!”
“Salute!”
“Il vino è finito”
“Forse è ora di andare”
“Aspetta...vuoi altro vino? Stappiamo il Nero d'Avola?”
“No, vado”
“Non insisto”
“Ci sentiamo”
“Sì, ci sentiamo”
“...”
“Passa quando vuoi...”
“Vediamoci per uscire una sera, prima che torna Marie...”
“Va bene, chiamami”
“Chiamami, se ti va, anche solo per parlare, se ti senti solo”
“Ma io senza di lei, sono solo, mi sento solo, anche se in alcuni momenti mi distraggo, poi ritorno alla realtà, e non c'è niente da fare...”
“Scrivi tutto in un romanzo!”
“Non lo so se mi va”
“Fallo...mettiti seduto, e scrivi, sei venuto al mondo per questo, no?”
“Lo credevo una volta”
“Io credo ancora in te. E non sono il solo, fidati. Fallo per me, fallo per Marcella, fallo per te, ma fallo, ti prego”
“Ci proverò”
“Devi riuscirci!”
“Chi lo sa...”
“Ora vado davvero, fatti abbracciare amico”
“Grazie”
“Grazie a te, e ricordati la promessa!”



L'amico lascia la sua casa, ed egli rimane solo. Stappa il Nero d'Avola e si prepara l'ennesima sigaretta artificiale. La cannabis e i suoi derivati gli hanno sempre procurato un effetto di rilassatezza. Accende. Aspira. Espira. Prende il foglio e la penna. Guarda il foglio. È bianco. Non sa cosa scrivere. Non si ricorda come si fa. Aspira, espira. Si riempie il bicchiere, fa un sorso. Aspira. Poggia la penna, segna un tratto, poi stacca. Espira. Beve ancora dal bicchiere. Aspira, espira. Ha tutto in testa ma non riesce a dirlo. Una volta era così semplice. Una volta era la cosa che gli riusciva più naturale. Adesso nulla. Aspira, espira. Beve. Aspira, espira. Aspira, aspira. Espira tutto insieme. Guarda il fumo. Beve. Poi comincia a piangere. Scrive sulla pagina “A Marcella”. Aspira, espira. Aspira, espira. Beve. Aspira, espira. Aspira, espira. Aspira, espira. Non gli viene nulla da scrivere. Gli sembra inutile. E se avesse sprecato tutta la sua vita? Aspira, espira. Beve. Aspira, aspira, spegna la cicca. Espira. Beve. Poi scoppia in lacrime. E dopo un lungo pianto, si addormenta stirato sul tavolo.


Sogna scene di vita ordinaria, con personaggi con le caratteristiche divelte, e come la sensazione di un messaggio da decifrare, ma un po' confuso. Alle prime luci dell'alba, apre gli occhi, e non sa cosa ci fa a dormire in cucina, come si trova lì. Va nella camera e si butta sul letto, vestito e con le scarpe. Sogna di camminare in un tunnel buio, vede una luce, lontana, che non riesce a raggiungere. Un sogno molto lungo e difficile. Non un incubo, si tratta di un sogno, un sogno lungo e difficile, fatto della sostanza del sogno. Non è angosciato, è sereno, prosegue dritto, verso la luce, verso l'uscita che non riesce a raggiungere. Suonano due volte al citofono, ed egli apre gli occhi. È uscito dal tunnel. Il citofono suona ancora. Va a rispondere.
“Chi è?”
“Raccomandata”
“Scendo subito!”
Prende le chiavi ed esce di casa, riceve la lettera e tornando su per le scale apre la busta. Entra in casa, chiude la porta alle sue spalle e tira fuori il foglio. Il contenuto era chiaro: avviso di sfratto. Sorride, accartoccia il foglio e lo lancia verso il cestino. La palla di carta rimbalza sul bordo e cade di lato, a terra. Guarda sul tavolo e vede due bicchieri vuoti, due bottiglie vuote e una piena a metà, residui di diverse sigarettine, cartine, tabacco sparso, cenere sparsa, una cimetta dentro un pezzetto di cellophane, macchie di vino, una penna e un foglietto. Prende il foglietto e legge “A Marcella”. Accartoccia il foglietto e lo lancia verso il cestino. La palla di carta rimbalza sul bordo, e poi entra dentro al cesto. “Questa era più leggera!”, pensa. Poi mette a fare il caffè e comincia a sbriciolare l'erba. Lo aspettava una nuova giornata.

domenica 13 luglio 2008

Identità II


Il giorno comincia stanco. Il protagonista è stanco. L'autore è stanco. Entrambi dormono poco e male. Il protagonista e l'autore questa volta non sono la stessa persona. Ma un protagonista può essere una persona? Certamente una persona può essere protagonista. Problemi di io. Problemi d'insofferenza. Problemi di stanchezza. Mi sto allontanando dallo scrivere di vita. Una volta l'obiettivo della mia letteratura era di raccontare la vita, mia e di quelli che mi vivevano intorno, e tutto ciò che mi circondava, osservazione e introspezione per la narrazione. Ora mi sono discosto un po'. Ho perduto di vista l'obiettivo della mia letteratura. Mi sono lasciato influenzare, mi sono lasciato sconfiggere. L'assopimento che vedo nel popolo che stia catturando anche me? Ma non distogliamoci dalla storia. Io e l'autore non siamo la stessa persona. O no? Avevate pensato questo? Avevate confuso me con l'autore? Vi siete sbagliati. Io e l'autore non siamo la stessa persona. Certo anch'io sono stanco, come è stanco l'autore e come stanco il protagonista. Ecco, finora abbiamo tre personaggi: io, l'autore e il protagonista. In che posizione sta il pubblico? Ma di cosa stiamo parlando? Parliamo di cinema? Di letteratura? Di pattinaggio? Il punteggio raggiunto finora è 15. E non sono mai andato a capo.

No, non comincia un nuovo paragrafo. Sono andato a capo perché cosi mi andava.
Ecco. L'ho fatto di nuovo.
E ancora. Nessuno mi può impedire questa mia libertà. Decido io quando andare a capo.
E con questo il punteggio raggiunto è 31. In pochissime righe ho più che raddoppiato il mio punteggio.
Non fa più caldo come le scorse settimane, o forse mi sono abituato. Mi sono assuefatto. 26. Come cazzo è? Sto perdendo punti? È l'argomento? 27. Non capisco. Voi vi siete fatti una qualche idea di come funziona questo gioco? Mi sono perso. Scrivere è perdersi. Ma scrivere è anche ritrovarsi. Quante contraddizioni, quante domande, problemi inutili. La vita è una serie incredibile di contraddizioni. La condizione umana? L'uomo si adatta all'ambiente. Ne stavo parlando prima, a proposito del caldo. Poi il punteggio è cominciato a scendere...stavo dicendo del caldo, il caldo che non si sente più tanto caldo. 28. Questa sarà piaciuta al giudice. Ecco comparire il quarto personaggio, il giudice. Il giudice è colui che dà il punteggio. Il giudice non è il protagonista, né l'autore, né tanto meno io. Sia io, sia l'autore, sia il protagonista siamo stanchi. Il giudice no. Il giudice non può essere stanco. Apro una breve parentesi. Anzi lo faccio andando a capo.
(



Sono andato a capo due volte per lasciare meglio riflettere.

36
Ecco, l'ho fatto di nuovo. Questa volta per la suspense.
Ancora a capo. Per l'attesa.
39


(Il giudice. È importantissima la figura del giudice. Il giudice deve essere una persona onesta, integerrima, incorruttibile. Il giudice stabilisce giustizia. In Italia la giustizia è a rischio, come sono a rischio tante cose. Dobbiamo fare attenzione...)44. Chiudo la parentesi perché avevo detto che sarebbe stata breve. Ma il messaggio l'ho inviato...(il cellulare non c'entra nulla!)...chi vuole, può benissimo intendere, o fraintendere, come sempre avviene. Prendete ad esempio il presidente del consiglio che viene sempre frainteso. No, anzi, no, lasciamo perdere. Meglio non parlare dell'argomento. Il berlusconismo è una brutta bestia. Spero almeno questo si possa ancora dire. 16. Come? Mi dicono che hanno cambiato il giudice. Probabilmente presto cambieranno anche la legge. Questa citazione è molto fine. Si può dubitare su un giudice? Se avessero scelto un giudice più loro vicino per essere favoriti nei processi? Un giudice giusto, quando ho citato De André, avrebbe dato un punteggio migliore. Il punteggio finora raggiunto è 14. Posso urlare ingiustizia? Mi ascolterà qualcuno? Possibile che l'autore non possa far nulla? E il protagonista? Sono stati anche loro tacciati, anche loro cacciati. Siamo stati tutti fregati. E così ci provo con la rima. Niente.
Ci provo andando a capo. Niente.
Per me comincia la seconda pagina, non so per voi. Per caso qualcuno si è posto domande riguardo la mia sanità mentale?



Perché per me l'unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra allo scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh!”. Jack Kerouac.

E a proposito di PPP.

L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza, è ora, il fascismo”. Pier Paolo Pasolini, 1962. E al 2008 non è cambiato niente.

Cosa hanno in comune Pasolini e Kerouac? Sono nati lo stesso anno, lo stesso mese, marzo, il primo il 5, e il secondo una settimana dopo, il 12. Sono nati entrambi di domenica, e sono tra i più grandi scrittori della letteratura mondiale.

L'autore è uscito e tornato. Al mattino ha fumato hascisc, adesso invece si sta godendo una bella canna di ottima erba. Non ha ancora smaltito la sbornia del sabato sera.
Il giudice di prima non si sa che fine abbia fatto. Al nuovo giudice viene impedito di svolgere il suo lavoro. Hanno bloccato oltre mille processi. Il potere e la giustizia sono in disaccordo. Il nuovo giudice non assegna più punteggi al mio gioco?
Il giudice: “Arrestate l'autore!”.
L'autore: “Ma è solo una pianta...”.
Il giudice: “Quello è solo l'aggravante, è a causa di quella pianta maledetta che sei stato indotto a pronunciare oltraggiose parole rivolte al potere”.
Il giudice alle forze dell'ordine: “Portatelo dentro!”.
Così misero l'autore in carcere, per le sue idee, e a quel punto, dopo il primo breve dialogo, ecco che finalmente scende in campo il protagonista. Ha avuto tutto il tempo di riposarsi.



Il protagonista.
(E adesso cosa mi invento? Tutti avranno grosse aspettative. Ho quasi fame, ma non posso, non me la sento di andare a mangiare, è il turno del protagonista, non devo assolutamente mancare!).


Eccolo qui. Lo vedete? Il protagonista non è il gelato al gusto di cioccolato e banana che mi hanno appena portato, senza nemmeno averlo chiesto. Non è un granché, ma apprezzo il gesto. Il gesto è la manifestazione della falsità della persona che l'ha compiuto oppure è un tentativo di riavvicinamento, come a voler riparare agli errori del passato? La mente umana è perversamente complicata.

Spero di non essere rimasto solo. Non ci pensi mai, o ci pensi, quando scrivi, quando hai scritto già diverse righe, che tutti i lettori abbiano abbandonato le tue parole, e la storia è lì, magari dirai le migliori cose del mondo, e le dirai nella migliore maniera, lì a portata di tutti, ma utile per nessuno. Forse hai fatto un errore prima. Hai perduto frase dopo frase tutti i lettori. Sei rimasto solo, così come eri, dopo la breve illusione. Ma sei ancora illuso, e tutte queste cose non le sai.

Il protagonista: “Ascoltate, gente, qui le cose vanno molto male...”, e qui le soluzioni sono svariate
a) il protagonista è matto, parla da solo e nessuno lo ascolta
b) il protagonista parla a pochi amici (tipo la canzone in cui erano 4 amici al bar, hai presente?)
c) fuori gioco: era solo per dire che ho già da due righe superato la terza pagina. Questi riferimenti possono essere utili, se vogliamo, agli scrittori che si troveranno a leggere, per rendersi orientativamente conto di quanto rende una pagina, sapendo che scrivo in carattere 12 del Times New Roman. Ma non divaghiamo e torniamo al protagonista
d) il protagonista parla per strada, ad un crocchio di estranei, per scuoterli dal loro sopore
e) il protagonista parla ad una folla gremita, al popolo

Non devi mettere nessuna crocetta, idiota, quella degli esami “a crocette” è un'altra supposta che ti hanno messo per disimpararti a pensare con la tua testa, per non farti ragionare, per farti credere che ti stavano curando quando invece ti infettavano di idiozia. L'università è tutta una presa per i fondelli. Conosco troppi laureati che sono dei perfetti imbecilli, incapaci, inetti. Ho letto tesi di laurea illeggibili, zeppe di errori grammaticali anche gravi. Eppure sono laureati, dottori, dottori di 'sto cazzo, se mi permettete la volgarità. Cosa? Guardate che il livello è quello. I parlamentari parlano così. I calciatori parlano così. In televisione parlano così. Nei film parlano così. La gente parla così.


Siamo un popolo alla deriva.

L'avete letto bene? L'avete impresso nella mente? Se non ve lo riscrivo. Siamo un popolo alla deriva.
Andate adesso a rileggervi la frase di Pasolini che ho testé citato.

Il protagonista che fine ha fatto?

Il protagonista. Secondo tentativo.
Il protagonista: “Ascoltate, gente, qui le cose vanno molto male, dobbiamo prendere atto che la democrazia è morta!”.
A quel punto un colpo di pistola pone fine alla vita del protagonista.

Non ve l'aspettavate, eh? Ma cari ragazzi, certe cose non si possono dire, non l'avete ancora imparato? Ho sentito in aula parlamentare un esponente di una opposizione parlare di “dolce dittatura” da parte del presidente del consiglio. È agli atti. Non credete che sia grave?

Spazio quiz. Indovina cosa sta a significare M&M?

a) linea intima di Dolce & Gabbana, sta per Maschio & Maschio
b) forza dirompente nel panorama politico italiano attuale, le sempreverdi Mafia & Massoneria
c) marca di sigarette
d) abbreviazione di Mirco & Marco, comici dell'emittente televisiva TeleMacero, conduttori del programma
Ribrezzo

La risposta al quiz è la numero...(sì, lo so che sono lettere, ma fa più Miss Italia, no?)...la numero...la numero...
Color color...
Rosso!
No, non ci pensate proprio, la risposta al quiz non l'avrete mai, almeno non da parte mia, e dato che sono il solo a saperlo, ho deciso egoisticamente che il segreto lo porterò con me nella tomba. Non ci sono né vinti, né vincitori. E nessuna situazione di stallo.


Dopo tre giorni, il protagonista resuscita e la prima cosa che dice è: “Scacco matto!”. No, non è vero, è uno scherzo. Come non fa ridere? Lo scherzo è che dice “Scacco matto!”.

Dopo tre giorni, il protagonista resuscita e la prima cosa che dice è: “Mafia e massoneria!”. A quel punto gli sparano di nuovo, tre colpi questa volta, e da morto, gli pisciano pure addosso.

Ammazza, direbbero a Roma, già t'ho scritto quattro pagine!

È morto il protagonista?

Il protagonista. Terzo tentativo.
Il protagonista: “Ascoltate, gente, qui le cose vanno molto male, dobbiamo prendere atto che la democrazia è morta. Uomini di malaffare hanno preso il potere e ne usufruiscono per i loro loschi affari personali. Dobbiamo intervenire. Non possiamo, non dobbiamo permettere a questi bruti figuri di perseverare nelle loro malefatte. Il popolo soffre la fame, il carovita è diventato insostenibile, non c'è lavoro, non c'è futuro...”.


Adesso vi sta piacendo? Che ne dite continuiamo così? Ricordiamoci sempre che l'autore è in carcere. Del primo giudice ancora non abbiamo notizie. L'informazione non è libera.

L'Italia non è più.
L'Italia non è più una repubblica democratica, e sul lavoro mettiamoci una pietra sopra. La sovranità non appartiene più al popolo, bensì a pochi, e la esercitano come gli pare, a seconda delle loro esigenze, perlopiù economiche o personali. La costituzione è un optional. Nessuno più riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo. I doveri, quelli lì, te li continuano a chiedere. Della serie prendono e non danno.
Non tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e la legge non è uguale per tutti. Per mancanza di fondi, la scritta presente nelle aule di giustizia resterà però sempre quella vecchia. Esistono ancora distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana, diventano fardelli sempre più pesanti, che gravano sempre più sulla vita dei singoli individui. Il diritto al lavoro è stato abolito. L'Italia è Stato abolito.
Stanno anche provando a dividerla di nuovo, la Repubblica, e non è detto che non ci riusciranno. La Chiesa interviene fin troppo, come ha sempre fatto, nella vita politica del paese. La laicità dello Stato è un'altra balla che sono soliti propinarci.
Alla cultura e alla ricerca scientifica spetta una quantità sempre più esigua di risorse finanziarie. Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione subiscono scempi quotidiani e nessuno dice nulla, nessuno fa nulla. Continuiamo? Vi sta piacendo? Io a dirla tutta non mi sento molto bene. E nemmeno l'autore, a cui esprimo tutta la mia solidarietà, sta tanto bene, ingiustamente in carcere. E nemmeno il primo giudice, incazzato nero perché gli è stato negato il suo diritto, sta tanto bene. E tu come stai?
Rino Gaetano odiava la gente capace soltanto di chiederti “Come stai?”.
Come stai?


Devo dire la verità, mi piace. Devo intitolare qualche racconto o poesia, così.

Come stai?

Devo dire un'altra verità. Rino Gaetano è un genio. Lui non è morto, se noi vogliamo. Solo noi possiamo ucciderlo. Ma se continuiamo ad ascoltare le sue canzoni, e cantarle, lui rimarrà vivo. Per sempre.
Siamo all'ultima riga. Quando andrò a capo, saremo a pagina 5, sempre del mio foglio elettronico.

Adesso.

Adesso e sempre, mai smetterò di urlare al mondo intero che Fabrizio De André è stato uno dei nostri più grandi poeti. Per la sua vita e le sue canzoni, vale lo stesso discorso di cui sopra.
Mi sono messo la paglietta in testa. Non mi piace più. Quando l'ho comprata cercavo un cappello estivo. Ho sempre avuto un debole per i cappelli sin da quando ero piccolo. Oggi come oggi, d'inverno, porto sempre la coppola. Ne ho tre, due erano di mio nonno, l'altra l'ho comprata io. Ai reading e alle presentazioni indosso sempre il borsalino. Il mio cappello. Io adoro il mio cappello. Questa invece no, questa paglietta non mi piace più, dovrei regalarla a qualcuno. L'unica cosa che ancora mi piace è il buco al centro, sembra quasi che ci sia passato un proiettile. E poi è piccola. Me la tolgo e la butto via, lontana nel disordine, a creare altro disordine nella mia stanza. Non so quanto il disordine delle camere in cui vivo rispecchi il mio pensiero. Ma lasciamo perdere, e andiamo oltre.


Il malessere degli individui cresce di giorno in giorno. È così per il primo giudice, per l'autore, il protagonista ha una vita ancor più complicata, non ha ancora capito chi è. E nemmeno noi abbiamo le idee abbastanza chiare. E pure il mio malessere aumenta di giorno in giorno. Chi manifesta per chi? Chi manifesta per cosa? Che ne è stato degli operai? Che ne è stato degli studenti? Gli studenti si limitano a mettere le X sulla risposta giusta. Ogni risposta giusta vale 2 punti. La risposta non data è zero. La risposta errata vale -1. Tu a quanto stai? Stai imparando? Non è sempre giusta però la tua croce, così come quando vai a votare.

Operazione Parlamento Pulito.
Ingaggiata l'impresa di pulizia di Luciano Gaucci.

Ma PP non stava per Paolino Paperino?
Ieri sera con gli amici ho bevuto birra fino alle cinque del mattino. Ci siamo fatti un sacco di risate e abbiamo bevuto una quantità incredibile di birre. Eravamo ben ubriachi. Stamattina non ricordo dove avevo parcheggiato la macchina. Poi pian piano piano mi è venuto in mente. Sono andato quasi sicuro, quando oggi pomeriggio sono uscito per andare (non voglio dirvi dove sono andato, ma se siete lettori attenti, scoprirete che ve l'ho già detto...). Quando vedrai questo simbolo * avrai la soluzione.


Il giudice: “Arrestate quest'uomo!”.

Le sbarre. Sono dietro le sbarre. Sono in prigione. Imprigionato. Non sono libero. Sono libero solamente di pensare. Tu sei libero di pensare? Sei veramente libero di pensare?

La differenza tra la realtà percepita e l'effettiva oggettività delle condizioni è...lasciamo perdere.

Mi sento infelice. Vorrei uscire. Queste sbarre. Vedo nella cella di fronte alla mia un uomo. Passa tutto il giorno a scrivere sui suoi taccuini. Sono quadernetti piccolissimi. Qui dentro tutti lo chiamano L'autore. È un uomo molto schivo, introverso. Pare che sia qui per le cose che abbia scritto, per vilipendio a non so cosa, e aveva l'aggravante di fumare l'erba. Anche io sono qui dentro perché fumavo l'erba*. Che poi è così strano, anzi forse l'erba che si trova qui dentro è ancora più buona di quella che si trova fuori. Vorrei avvicinarmi a lui, parlargli. Mi sarebbe sempre piaciuto imparare a scrivere. Avrei tante domande da porgli, ma ho come l'impressione che lui preferisca starsene per i cazzi suoi.

Fuori, ad essere sinceri, non è proprio che sia diverso da qui. Mi sono abituato alla prigionia. Un giorno uscirò, e vedrò il da farsi. Non mi resta che aspettare. Quell'uomo, l'autore, ho notato che ultimamente, mentre scrive, ogni tanto si interrompe per sbirciarmi. Chissà cosa scrive. Sembra essere una fonte inesauribile di parole. La sua mano non si ferma mai, salvo ogni tanto, che la scuote e l'accarezza, forse gli duole, o gli si addormenta, ed io immagino il formicolio della sua mano. Dormo tanto qui dentro. Mi sono un po' stancato della noia.

Oggi doveva essere molto arrabbiato, l'autore. Durante l'ora d'aria siamo rimasti entrambi nella cella. Ad un certo punto mi urla da lontano, “Ma cos'hai da guardarmi sempre, tu? Mi distrai, e poi mi infastidisce avere gli occhi addosso di qualcuno. Se potessi smetterla, te ne sarei grato...”. Io non ho avuto il coraggio di rispondergli niente. Me ne sono stato zitto, e mi sono girato.
La cosa che mi ha meravigliato, è che dopo che sono tornati tutti, i vigilanti sono andati alla cella dell'autore, e lo hanno invitato a prendere le sue cose e seguirli.


Sono due mesi oramai che non vedo più l'autore. Pare che dal giorno del cambio di cella non sia uscito più per l'ora d'aria. Mi hanno detto che ha chiesto di tornare al suo vecchio posto, ma gli hanno negato l'autorizzazione. Adesso al suo posto c'è un giudice.

(Avete capito di chi si tratta?)

Il giudice venne arrestato per occupazione di suolo pubblico. Protestava per il suo diritto di lavorare, a torto negato ingiustamente.

E così, io, l'autore e il giudice eravamo in carcere. Il protagonista è alle strette. Non gli restano ancora molte chance per trovare una sua delineata identità. Finora quello che abbiamo visto e saputo di lui, faceva parte solo del mondo dei suoi sogni, si tratta di infinitesimali frammenti del suo universo onirico. E direi che questo è un gran bel colpo di scena.

L'avvento del protagonista nel mondo reale.
Impossibile caricare il file richiesto.

Qui non siamo nel mondo reale. E se fossimo nel mondo reale, saremmo in carcere. Qui tutto è finzione. E se la vita fosse tutta una finzione? Tu che ne pensi?

Tu come stai?

Vi ricordate?

Io non sto bene. Ma allo stesso tempo sto bene. Devo dire che sto bene nel mio non star bene. Invece nel mio star bene, in genere non sto bene. Chiaro, no?

Andiamo avanti. La giornata avanza e sono ancora digiuno. Questa domenica l'ho dedicata tutta ai miei deliri. Vi rendete conto dell'assurdità di questo racconto? Certo è scritto bene, diranno quelli che hanno superato la fase dei punteggi. Va nell'assurdo e torna. Avanguardia? Ma che cazzo ne so io dell'avanguardia?
Si dirà dell'arte di mescolare realtà e fantasia. Probabilmente qualcuno dirà che sono un mare di cazzate. Non sembra, ma qualcosa l'ho detta. Tu hai trovato qualche spunto di riflessione? Chissà cosa diranno, di questo racconto, quelli che lo leggeranno. I lettori non trovano mai quello che l'autore (eh?) vuole realmente esprimere. In effetti, a parlare con franchezza, molto spesso nemmeno l'autore (eh?) ha sempre ben chiaro quello che vuole esprimere. Ma si esprime. Prova a farlo. Prova. Uno due tre. Prova. Lo scrittore esprime. Punto.


Il punto qual è? Fino a dove voglio arrivare? L'ora di cena è arrivata, e passata quasi. È tardino.
“È tardi?”.
“No”.


Non è tardi. Sono quasi le nove. Non mi sono quasi nutrito, oggi. Cosa si prospetta per la serata? Ho voglia di schifezze. Mi faccio un po' di hot-dog con wurstel, crauti, mayonese, sottilette. Cosa posso metterci più? Ho voglia di farmi del male. Ma a voi importa cosa mangio stasera? Ve lo dico, no, perché è per voi, per scrivere queste amenità, che sono digiuno. Mi sono divertito un sacco. È stata proprio una bella giornata. Un'ottima compagnia. Grazie della compagnia.

Da solo sto benissimo. Adoro la solitudine. Chissà se l'hanno bevuta la storia della compagnia...Cosa? Dicono che la mia solitudine fa un po' pena. Solitudine? Ma io sono una moltitudine! (liberamente ispirato a...indovina un po'? Non mi va di dirvi tutto. Prendete i libri e leggete, cazzo, leggete!).

La solitudine per scelta.
Io scelgo di star solo e mi piace. La mia, è la compagnia che preferisco. Ci sono uomini interessanti e belle donne. Ma io sto meglio da solo. Sto bene anche con gli altri, con quelli che mi piacciono, e quelli che non mi piacciono, mi adeguo alle soluzioni. (p.s. in fase di rilettura mi viene il dubbio che originariamente volevo scrivere situazioni, ma lascio soluzioni e apro una parentesi). Ma il numero uno resto io. Il numero uno resta il mio io. Il mio io al primo posto.


Gli scrittori sono tutti matti.

La storia dell'io, della solitudine, nuoce gravemente alla mia vita di coppia. La mia vita di coppia nuoce nuoce gravemente alla storia dell'io, della solitudine. È un problemone, non scherzo. Ma io l'amo e lei mi ama. E che dobbiamo fare? La mia pubblica vita privata. Pubblico la mia vita privata. Sono senza veli. Non sto insieme ad una velina.

Io l'amo e lei mi ama, con tutto che io all'amore non ci credo. L'amore è una serie di circostanze.

La storia dell'io, della solitudine.
La storia dell'io, della solitudine, comincia con due protagonisti. Il protagonista e l'alter-ego. Dietro ogni protagonista c'è un alter-ego. Frequento troppa gente che ha due nomi e due cognomi. Come? No, è che questi artisti sai come son fatti...


Dovevo andare a trovare Dean Moriarty. O meglio avevo detto lui che sarei passato a trovarlo, ma mentivo. Ci facciamo questi dispetti, io e il mio amico. Ci diamo degli appuntamenti che non rispettiamo. Ci divertiamo così. Anche sabato sera ci saremmo dovuti vedere, ma poi lui aveva ospiti a cena. C'è sempre qualche impedimento o qualcos'altro. Non ci vediamo mai quanto vorremmo. Dobbiamo fare un viaggio. Ho alcune paure. Se molassi tutto e partissi? Ma poi ricominciare sarà ancor più dura, e poi avevo previsto una ripartenza diversa. È così complicato.

Cosa penso di questa vita? Ci sono un mare di cose da dire. E tutte le vite non bastano. La capacità di raccontare che sto ritrovando, i favori positivi di tanti uomini e donne, mi danno le forze di resistere, di continuare, di lottare per i miei sogni.
Domani è un giorno di merda. Domani è lunedì. Il lunedì si ricomincia a lavorare. Io odio questo mio lavoro. Mi vendo al miglior offerente. Cerco qualcosa di migliore per la mia vita. Di fare il lavapiatti non ne posso più.

Disturbi di personalità? Crisi d'identità?

Dietro le quinte.
“Ma tu non fai il lavapiatti!”.
“Lo so!”.
“E allora?”.
“Ma non capisci? Ho scritto lavapiatti perché è il primo lavoro così che mi è venuto in mente, è un lavoro di merda come il mio, come tanti altri...è una condizione alienante che ti priva della tua libertà. Ti danno danaro in cambio di tempo. Danaro che spendi per riempire il tempo libero che ti lasciano. Era un modo di dire che comunque vadano le cose, amico, ti stanno fottendo!”.
“Non riesco proprio a comprendere dove tu voglia arrivare...sembri pazzo, a volte”.
“E tu? Tu che parli da solo? Io non esisto. Io sono una parte nascosta del tuo cervello, una personalità che vuole venire fuori...”.
“Cosa? Ma stai dando di matto?”.
“Ti sembro uno che sta dando di matto, io? Guardati tu, piuttosto! Io sono calmissimo, consapevole, so quello che dico e scrivo. Tu invece mi sembri un po' malaticcio, dai tuoi occhi traspare un'espressione preoccupata, inquieta, angosciata. A guardarti non si direbbe. Sei così sicuro di stare bene?”.
“Io sto benissimo. Tu, che fai così il saccente, sei sicuro di essere così consapevole di quello che scrivi e dici?”.
“Certamente no. Ma questo non c'entra nulla con la questione iniziale. Sei un idiota. E poi perché mi hai chiesto se faccio il lavapiatti se sai benissimo che io non faccio il lavapiatti? Io non faccio il lavapiatti! Capito? Faccio un altro lavoro di merda, e mi girano i coglioni, e dovrebbero girare a tutti. Ci stanno fottendo! Ci stanno fottendo! Non lo capisci che ci stanno fottendo?”.
“No, caro, sei tu che non lo hai capito...ci hanno fottuto già...”.


Siamo alla fine.



Come stai?

Vi ricordate?



Adesso siamo veramente alla fine.



Giustizia è stata fatta. Sono tutti fuori. Non nel senso che sono matti, nel senso che sono usciti, sono finalmente liberi. L'autore, il giudice, tutti. Il protagonista è finalmente uscito in tutto il suo splendore. Mentre noi pensavamo ai cazzi nostri ha guidato saggiamente la rivoluzione per ristabilire i principi democratici. Sono tutti di nuovo liberi.
È tornata la democrazia, la legalità, la libertà, la giustizia.



Utopia.



Il punteggio raggiunto è 100.



Game over!

Pagina 9.


mercoledì 9 luglio 2008

On the Radio!

Ospite di Antonia Fama nel programma Cubalibri, su www.radiosapienza.net
Se ti va di ascoltare la puntata, clicca qui sotto. Si parla di politica, letteratura, attività, del mio libro, e tanto altro. Basta premere qui sotto:
http://radiosapienza.net/index.php?option=com_content&task=view&id=843&Itemid=122

lunedì 7 luglio 2008

Nuova poesia su fuorilemura.it

Una ma vecchia poesia, "Cronaca di una preghiera male digerita", è stata pubblicata sul numero 145 del settimanale online www.fuorilemura.it

Per leggerla clicca qui sotto
http://fuorilemura.it/index.php?ed=&rub=40&tit=3554

lunedì 23 giugno 2008

Identità

Cadde. Inciampò in una buca su un marciapiedi, e se non avesse avuto la prontezza di riflessi di piantare la sua mano al suolo per attutire il colpo avrebbe anche potuto farsi male. Qualcuno poco distante da lui rideva. A nessuno venne in mente di dargli una mano a rialzarsi. Lui era lì steso, immobile, con qualche piccolo graffio, leggere escoriazioni sul palmo della mano. Sentiva bruciore. Era molto stanco e decise di restare lì dov'era, e non fare più nulla. Quasi aveva sonno. Chiuse gli occhi. Si addormentò.

Aprì gli occhi. Faceva caldo. Era sempre steso. Nessuno gli si era avvicinato. Il sangue era diventato di colore più scuro. Pensava che stesse guarendo. Poi si riaddormentò.

Si svegliò tutto bagnato, pioveva, e si accorse pure di essersi pisciato addosso. Era notte. Per strada non c'era un'anima che non fosse la sua. Un'autovettura di tanto in tanto. Doveva alzarsi. Doveva reagire. Doveva, non poteva certo restare lì, anche se poi perché no, avrebbe potuto anche restare lì. Non sapeva cosa fare. Era indeciso. Poi si decise.

Si alzò. I suoi arti erano indolenziti. Aveva un po' fame, ma avrebbe potuto anche aspettare, rimandare, tornare a casa e prepararsi un brodo caldo. A casa. La casa. Dove era la sua casa? Non lo ricordava, mentre cominciò a camminare senza direzione, lentamente, per le strade notturne della città. Era come se visitasse quei luoghi per la prima volta. Eppure quei luoghi gli ricordavano qualcosa, gli apparivano familiari. Non aveva idea di dove era diretto, mentre cercava di ricostruire i fatti. Ricordava la caduta, il primo risveglio col caldo, e poi di nuovo, tutto bagnato e pisciato, poi nulla. Dove era diretto quando è caduto? Da dove veniva? Il vuoto assoluto. E camminava.

Camminava, camminava. Poi trovo una fontana, e bevve dell'acqua, colorata, mentre il cielo cominciava a schiarire. Poi andò ancora un po', e si ritrovò in una piazza. Sebbene non ricordasse nulla di sé e della sua vita, si sentiva bene, sereno, libero. Sorrise a questo pensiero buffo. Poi si fermò davanti un bar, seduto su una panchina. Era mattina presto, le persone si affacciavano al nuovo giorno con lo sguardo assonnato e incazzato. Il lavoro ammazza. E lui? Chiuse gli occhi cercando di ricordare i suoi obblighi e doveri, ma nulla.

Quando riaprì gli occhi, vide fuori da un bar un uomo in giacca e cravatta, sui cinquant'anni portati bene, dall'espressione sorridente e soddisfatta, che buttava in un cestino un mezzo cornetto. Istintivamente si alzò per andarlo a raccogliere. Diede un morso. Era buonissimo. Non sapeva più da quanto tempo non mangiava qualcosa. Era come se mangiasse per la prima volta. Assaporò ogni boccone masticando bene e a lungo. Era una vita meravigliosa. Non si era mai sentito così bene, e quasi, penso tra sé, era contento di non sapere nulla di nulla. Guardava le persone per strada e gli sembravano tutti matti. Tutto di corsa, la fretta domina i movimenti, le azioni, i pensieri. Decise che era meglio camminare.

Faceva sempre più caldo. Bevve ad una fontanella. In lontananza vide l'entrata di un parco, e si diresse verso di là. Arrivò al parco. Entrò. Trovò un bel posto, sotto un albero, e si addormentò.

Sognò di cavalieri che combattevano per la dama, o per la loro terra. Sognò di essere un cavaliere. Poi al risveglio tutto era come prima. Senza memoria. Senza passato. Al parco giovani che suonavano e bevevano e fumavano. Anziani coi bastoni. Persone che correvano, qualcuno col cane a spasso, mamme coi bambini...e sua madre? Aveva mai avuto una madre, lui? Ricordava quella sensazione di affetto materno, ma non riusciva ad accostarla a nessun volto ben identificato. Una morsa atroce gli si strinse in petto. Sentiva gli occhi riempirsi di lacrime, avrebbe voluto piangere, ma resto lì, appoggiato all'albero, immobile, impotente, impassibilmente perduto. Poteva essere quasi mezzogiorno. Si riaddormentò. Voleva solo dormire, era l'unica soluzione possibile.

Si svegliò in un letto, in una stanza in disordine e nemmeno molto pulita. Al suo fianco c'era una ragazza che dormiva. Aveva l'espressione irrequieta, agitata, stava facendo degli incubi, probabilmente. Non poté che accarezzarla, darle dei baci sulle guance, per rassicurarla. Una donna che soffre commuove anche l'uomo più arido.
Lei si svegliò. Lo abbracciò forte.

“Ho sognato che mi tradivi...”, gli disse.
“Io non ricordo...”, disse lui.
“Cosa?”.
“Chi sono io, chi sei tu, come mai mi trovo qui...”.
“Ma che stai dicendo? Non scherzare, smettila, fai il serio!”.
“Non sto giocando, ero in un parco, sotto un albero, vedevo le mamme coi loro bambini...ma tu conosci mia madre?”.
“Ma che razza di domande mi fai? Conosco tua madre? Ma stai dando di matto?”.
“Non so...da quando sono caduto, non ricordo più nulla...ma io abito qui?”.
“Oddio, ma ti senti bene? Dove dovresti abitare?”.
“Non lo so, mi sento confuso...che ho fatto ieri sera? Siamo stati insieme?”.
“Ma che diavolo ti è successo?”.
“Io non so più chi sono...ricordo che ieri, o ieri l'altro, non lo so, mi sento molto confuso. Sono caduto. Mi sono addormentato. Il caldo...ho dormito sul marciapiedi...poi la pioggia. Ho camminato a lungo. La colazione raccolta nell'immondizia. Poi il parco. E il sogno in cui ero un cavaliere...non capisco, mi sembra di impazzire...”.
“Va tutto bene?”.
“Parlami di me”.
“Cosa vuoi che ti dica?”
“Non so, raccontami qualcosa. Mia madre. Te, noi. Stiamo insieme? Quando ci siamo conosciuti?”.
“Ma vuoi che andiamo al pronto soccorso?”.
“Che giorno è oggi?”.
“È domenica...sennò mica ci svegliavamo alle dieci del mattino...”.
“Ma io che faccio, in genere?”.

Lei cominciò a piangere disperata. Lo abbracciava, lo riempiva di baci, gli sussurrava negli orecchi tutto l'amore che provava per lui.

Lui disse, “Ho paura”.

martedì 27 maggio 2008

Eventi giugno 2008

3 Giugno

Reading e presentazione raccolta di poesie di Gianluca Liguori, "Credo in un solo io", casa editrice Tespi.
Erboristeria degli Artisti
Via Stampa, 13
Milano
h. 18.30

4 Giugno

Reading e presentazione raccolta di poesie di Gianluca Liguori, "Credo in un solo io", casa editrice Tespi.
Circolo Arci Tambourine
Via Carlo Tenca,16
Seregno (Mi)
h. 22.00

6 giugno

Manifestazione "Parole parole parole"
Reading Gianluca Liguori & Angelo Zabaglio
h. 18.30
Scrittori Sommersi
h. 19.30
Cineclub Alphaville
Via del Pigneto, 283
Roma

17 giugno

Reading e presentazione dei libri usciti con Tespi di Gianluca Liguori, Giorgia Tribuiani e Angelo Zabaglio.
Art Studio Cafè
Via dei Gracchi 187a (zona Lepanto)
Roma
h. 18.00

18 giugno

Reading Gianluca Liguori & Angelo Zabaglio
Libreria Giufà
Via degli Aurunci, 38
San Lorenzo, Roma
h. 19.30

giovedì 1 maggio 2008

READING E PRESENTAZIONE





Mercoledì 4 giugno 2008, ore 22



Circolo Arci Tambourine



Via Carlo Tenca, 16Seregno (Mi)



Reading Gianluca Liguori e presentazione raccolta di poesie "Credo in un solo io" (Casa Editrice Tespi)

venerdì 25 aprile 2008

Intervista

Su www.creativascrittura.blogspot.com on-line la mia intervista rilasciata a Davide Giansoldati.

giovedì 3 aprile 2008


Su www.tespi.it finalmente disponibile on-line
Gianluca Liguori
Credo in un solo io
Casa editrice Tespi

Dialogo tra me e un’anima.

Il cielo è scuro.
Come tarli le idee mi divorano l’anima,
l’anima che credevo di avere.
Forse sto solo meditando vendetta.
Forse sono vittima di me stesso;
se esisto.
E intanto tu resti sola al buio.
La luce si spegne.
I tuoi vestiti madidi di angoscia
recitano soltanto per polverizzare il tempo.
Il fatto è che ti crei aspettative,
e poi rimani delusa.
Stanotte ti ho sognata:
eri dentro una scatola
che io non riuscivo ad aprire.
Poi è finito tutto.
Poi un altro giorno è iniziato.
Estratto da "Credo in un solo io", Tespi

domenica 30 marzo 2008

Dio è distratto - cap. 3 Napoli



Era luglio, era finito il loro primo anno d’università, avevano fatto gli esami che dovevano fare ed erano pronti per le meritate vacanze. Erano liberi, liberi di andare dove volevano, di fare quello che volevano, Anna, Yuri e Dean, io ad aprile avevo abbandonato l’università, ma ero comunque libero, addirittura più libero di loro, seppure mi sentissi imprigionato, come in catene, e non sapevo dove volevo andare, cosa volevo fare: non facevo niente, non sapevo che fare e stavo fottutamente male. Avevo messo da parte Marylin da un bel po’ ma ben presto subentrò lei, Trikster, a rimpiazzare quell’idea fissa, ad insediarsi tanto tortuosamente e burrascosamente nei miei sogni, ed io cieco, come uno stupido le correvo appresso, minacciando scenate, silenzi, fughe, suicidi.
Era l’indomani di una memorabile serata di bevute e baldorie, dapprima dentro e fuori il 32, poi davanti al parchetto, come milioni di altri giorni prima e dopo. Eravamo un magnifico terzetto, Yuri, Dean ed io, nel mezzo di una San Lorenzo popolata da sporchi, fatti e strafatti, barboni, ubriaconi, cani, punkabbestia, spacciatori, risse, sorrisi, conoscenze, amori, sventure, avventure, birra o vino e hascisc o marijuana, se non oltre; questa era la vita di San Lorenzo, noi ne facevamo parte e adoravamo inoltrarci in quei fondali di miseria a parlare di Freud, Nietschze, Goethe e di magia mentre scrivevamo libri e non ce ne accorgevamo.
L’indomani mi svegliai presto come d’abitudine, una pessima abitudine dato che poi mi sento sempre stanco. A mezzogiorno circa venne da me a San Lorenzo Yuri con lo zaino in spalla e la tasca piena di roba da fumare. Facemmo il caffè e fumammo un paio di canne, poi ci avviammo verso la Prenestina, direzione casa di Dean. Arrivati in via Malatesta, sotto il palazzo dove avrei vissuto poi, il portone era aperto, salimmo direttamente a bussare alla porta. Fummo noi a svegliarlo. La prima cosa che Dean fece fu preparare un cylum. Partivamo bene.
Fumammo svariate canne e cylum, prima di dirigerci alla volta dell’appartamento di Jason sulla Palmiro Togliatti dove avrei abitato per un paio di mesi dal settembre che poi venne rapidissimo. Quando fummo lì Anna ci aspettava già da un pezzo. Scopava con Jason da qualche mese, quella storia che non è mai stata storia durata due anni, lei ne era totalmente presa, sebbene la sua ossessione non era lui, bensì il suo membro, l’unica cosa che le rendeva la vita sublime. All’epoca era da poco iniziata quella strana relazione di sesso e nessun rispetto finita soltanto questa primavera, quando Anna ha deciso di cambiare casa perché non ne poteva più del suo…coinquilino!
Hanno distrutto la strabiliante amicizia che avevano, come se io non li avessi avvertiti di stare attenti, come se non gli avessi detto come sarebbe andata a finire, come effettivamente è andata a finire, e glielo dissi così tanto tempo prima, ma non mi diedero ascolto cadendo in una serie di spiacevoli errori e ritorsioni. Ora non si parlano nemmeno più, se non per dirsi qualcosa l’uno contro l’altro, come due ragazzini.
Dovevamo andare non ricordo dove stando ai programmi ubriachi della sera precedente ma al risveglio dal mio sonno alcolico ero intenzionato a portare tutti a Napoli, come poi avvenne. Non fu difficile convincere Yuri mentre andavamo verso casa di Dean, che subito accolse l’idea con calore ed euforia. Neanche finito di esporre il progetto che Anna stava avvisando Mena del nostro imminente arrivo nella città di Pulcinella… e Maradona!
Napoli. Mia amata odiata Napoli. Era a Napoli che studiava Marylin, che si ambientò subito, fin troppo bene, libera ormai da me, dal mio fantasma. L’agosto seguente ci sarei ritornato con Trikster, che poi avrei portato con me a Battipaglia prima, ed a Sant’Eugenio poi, giusto per stritolarmi il cuore.
Nel treno occupammo un vagone da sei interamente per noi quattro, prima di partire avevamo acquistato birre in abbondanza e Yuri aveva una tasca piena d’hascisc. Dean preparava una canna dopo l’altra, era stato eletto rollatore ufficiale della vacanza e la birra era un ottimo scudo contro il gran caldo di luglio, anche se faceva sudare. Sudare fa bene. Noi ci sentivamo bene, stavamo bene e volevamo vivere, sebbene qualcuno di noi, me compreso, lo negasse, troppo invischiato in disumane sovversioni cerebrali.
Ero certo che Mena sarebbe rimasta subito attratta da Dean, Anna invece credeva che gli occhioni blu del bel biondo Yuri avrebbero rapito la nostra cara amica. Come sempre, avrei avuto ragione io, e non potete immaginare per i due mesi successivi che rottura di coglioni fu per me sentire Mena che voleva rivedere Dean, parlargli ancora. Era rimasta abbagliata, aveva perduto la testa, ok, ma doveva assolutamente usare me per i suoi lamenti? Sì, perché ero stato io a farglielo incontrare!
Furono due giornate splendide, quelle di Napoli. Arrivammo nel tardo pomeriggio alla stazione dove prendemmo la metropolitana, direzione Montesanto, poi ci incamminammo verso casa di Mena. Passammo per piazza del Gesù, che colpì particolarmente Dean, e da lì arrivammo subito a destinazione, affamati di cibo e di vita. Per la strada avevo predetto ai ragazzi che avremmo mangiato pasta col tonno ed una volta saliti su, dopo i sei piani senza ascensore con rampe disuguali, più morti che vivi, dopo i soliti saluti e baci e dovute presentazioni, Mena disse, “Avrete fame, facciamo un po’ di pasta? Sugo col tonno va bene?”.
Noi si scoppiò a ridere. Qualcuno andò a comperare del vino, altri che venivano e andavano ne portavano in dote dell’altro, c’era un viavai di gente interminabile in quella casa di nove donne. Inevitabile, no?
Avevamo vino sia bianco che rosso, sarebbe stato un bel dilemma, scegliere. Alternavo, in attesa di una decisione coerente. Il mio corpo resisteva bene intanto che una leggera ebbrezza iniziava ad infiammare il mio spirito. Si rideva e si scherzava, poi non so come venne fuori, tra una battuta e l’altra mi rivolsi a Dean, indeciso come me su cosa bere, e dissi, “Fai una cosa, metà rosso e metà bianco, così sciogli ogni perplessità!”.
“Perché no? Sempre vino è!”, rispose lui, e non aveva tutti i torti, del resto. Mentre gli preparavo il cocktail iniziavano a vedersi facce disgustate, meravigliate, sorprese, ma perlopiù tutti ridevano e commentavano la nostra assurdità.
“Se beve questa robaccia giuro che la bevo anch’io”, pensavo. Non esitò molto a prendere il bicchiere e buttarlo giù.
“Buono, però”, disse lui, intanto che anch’io avevo bevuto e mi accingevo a preparare i bis mentre i primi curiosi timidamente si facevano avanti per assaggiare quello che avevamo combinato. In breve finimmo a bere quella miscela tutti, tutti ubriachi, nessuno escluso. Non so in tutta onestà quanto gustosa poteva essere la nostra nuova bibita, la scena di sicuro fu memorabile. Riuscimmo a coinvolgere una ventina di persone nella nostra pazzia, noi, che allora, bevevamo solo per ubriacarci.
Eravamo liberi, spensierati, sbronzi, ed intanto a casa di Mena giunsero pure Tobia e Betty, la sua ragazza, con la quale avevo frequentato l’ultimo anno di elementari a Sant’Eugenio, l’anno del mio trasferimento, mentre lui era stato il mio vicino di banco al triennio del liceo a Battipaglia, e sebbene lui fosse di due anni più grande di me mi ha sempre come idolatrato; è un ottimo amico, Tobia, una persona veramente buona, come poche, un tantino ingenuo, timido, chiuso, impacciato, sempre insicuro, a volte un bambinone capriccioso ma tutto sommato un gran bravo ragazzo. Porta anch’egli come me addosso gli strascichi di spiacevoli incidenti di formazione, i suoi erano divorziati e lui la viveva malissimo, si chiudeva in sé, si perdeva nei suoi pensieri e non era cosa rara trovarlo incantato a smarrirsi nel vuoto. Gli voglio davvero bene, al vecchio Tobia, nonostante le volte che mi ha mandato in bestia con comportamenti assurdi, eccessivamente paranoici e fanciulleschi; rimarrà sempre tra quelli a cui non rifiuterei mai una mano nel momento in cui mi venisse chiesto aiuto, perché è solo in questo mondo troppo grande e difficile per quelli come lui, quelli che credono ad ogni cosa per sproporzionata naturalezza, quelli che sono presi di mira per essere fregati dal nemico invisibile che infetta la società. Ogni volta che mi prendevo gioco di lui non lo facevo mai con cattiveria, cercavo di fargli aprire gli occhi. Adesso lo avrà capito, ma quando eravamo meno uomini ci rimaneva male non poco, quando esageravo, sebbene lo facessi solo per il suo bene.
Eravamo rimasti solo io, Dean, Yuri, Anna e Mena quando si trattò di uscire. Molti erano troppo ubriachi, qualcuno tornò alla propria casa, altri si misero a dormire. Solo noi, gli irriducibili.
Ci fermammo prima a fumare qualche canna a piazza San Domenico mentre mi sembrava di stare nella mia città a causa dello svariato numero di persone di mia conoscenza che incontravo in giro. Avevamo portato con noi quattro litri di vino da casa, per non spendere altri soldi, e bevevamo. Dopo un paio d’ore ci spostammo a piazza del Gesù, continuando a bere vino e a far girare canne. La piazza era piena di gente, chi suonava, chi ballava, chi cantava, c’era chi accennava risse, chi con lo sguardo spento dell’eroina fisso su un muro o sulle proprie scarpe. Era Napoli, uno spaccato d’essa.
Dean era entusiasta di tutto, Yuri immortalato in uno sciocco sorriso ubriaco che non riusciva a levare dal suo volto: era strafatto dalla droga e dalla meraviglia della vita. Stavamo proprio bene, le ore trascorrevano, rimaneva del vino intanto che il fumo era finito ed io volevo vedere il mare. Quindi andammo al porto, ci sedemmo su un molo a chiacchierare. Avevamo tutti la sigaretta in bocca mentre l’ultima bottiglia girava misticamente come un prezioso oggetto sacro, passando di mano in mano. Il vino si mescolava con il sangue di ognuno di noi.
Arrivò l’ennesimo mio turno in cui c’era da dare solo l’estremo saluto: la bevanda era terminata. Feci l’ultima sorsata e buttai la bottiglia nel mare, dopodiché mi alzai, avanzai di qualche metro ed iniziai a pisciare. Yuri mi seguì a ruota.
Lasciavo scorrere fuori i miei rifiuti liquidi, il veleno che tiranneggiava nelle mie arterie si disperdeva nell’immensità del mare quando una voce sopra di noi disse, “Che fate lì? Venite un po’, forza, su tutti quanti!”.
Così facemmo, era la Guardia di Finanza. Salimmo le scale per raggiungere i due tutori dell’ordine.
“Che stai facendo?”, mi disse il più giovane dei due guardando la mia mano.
“Sto fumando!”, risposi.
“Che cosa? Lo spinello? Fai vedere a me!”.
“È una sigaretta!”, dissi ridendo soffiandogli il fumo appena inalato in faccia.
“Fatemi vedere i pacchetti di sigarette!”.
Porsi il mio, l’unico al quale non erano state staccate le alette per fare filtri. Il finanziere rimase male a constatare che il mio pacchetto era intatto. Gli altri avevano il pacchetto fracassato, e lo mantennero per la durata della lunga discussione ben conservato, per evitare di compromettersi, fumando le mie sigarette dopo che per migliaia di volte in passato ed in futuro si erano presi gioco della mia paranoia di non fare filtri col pacco di bionde. Ecco il motivo!
“Favorite i documenti, giovanotti!”, intimò il più giovane, fiero nella sua squallida uniforme. Volevano il fumo, o qualche pretesto per sfogare le loro frustrazioni. Stavano svolgendo il loro lavoro.
Penso che capirono subito dalla nostra tranquillità che davvero non ce l’avevamo, il fumo, eppure questo non li scoraggiò, anzi. Iniziarono a fare discorsi morali a me e Yuri perché avevamo pisciato lì di fronte alle ragazze, ed alle ragazze perché non ci dicevano niente per il nostro ripugnante gesto. Volevano sapere cosa facevamo lì, perché eravamo a Napoli, dove andavamo in giro ubriachi a quell’ora della notte e dove avevamo messo la droga. Yuri rideva, rideva, era l’unica cosa che gli riusciva, non ne poteva fare a meno, ubriaco com’era, e questo indispettiva non poco il giovane di fronte a noi, tanto che, seccato ed infastidito, gli aveva più volte rivolto la stessa domanda, “Che cos’hai da ridere?”, ricevendo ogni volta la stessa risposta: un’altra risata.
Era così strano per loro che quattro studenti, finiti gli esami, andassero a trovare un’amica nella città dove studiava, dovevamo per forza aver fatto qualcosa di illegale e loro era il compito di scoprire cosa nascondevamo. C’era grossa confusione, ognuno di noi parlava un po’ con l’uno e un po’ con l’altro senza mai arrivare a nessuna conclusione mentre la luna risplendeva sopra noi nell’immensamente ed infinitamente strabiliante grande notte napoletana.
“Voi perdete tempo con noi mentre nei vicoli là dietro minacciano, rapinano, sparano, e poi venite a raccontarci che state facendo il vostro lavoro! Con noi? Ma fatemi il piacere! Andate nelle zone calde dai boss malavitosi che passeggiano quieti nel loro quartiere, nel loro regno, e la notte dormono nella propria casa sonni tranquilli senza la coscienza delle vittime che hanno sulle spalle e la domenica vanno a messa e si confessano coi preti omertosi. Andate da loro! Non lo fate? E perché? Avete forse paura? È forse più semplice fare il forte con cinque studenti innocui ed indifesi che liberarci dalle cose eticamente e legalmente scorrette che corrodono le tubature di questa società malata e priva di senso civile, corrotta, come voi forze dell’ordine, come i politici…”, Mena era partita col suo infinito discorso, piangeva addirittura quando toccava le parti più profonde del suo sconclusionato ma purtroppo troppo giusto monologo, finché il finanziere l’interruppe bruscamente dicendole, “Stai zitta, tu, sei ubriaca!”.
“Io non sono ubriaca…”, rispose urlando, e mentre pronunciava queste parole le sue gambe cedevano e sarebbe caduta di lungo a terra se io e Yuri non fossimo stati lì vicino a prenderla giusto in tempo. Feci cenno a Yuri di allontanare Mena, porgendole una sigaretta per corromperla mentre sorridevo falsamente accordando il finanziere, “È ubriaca, abbiamo bevuto parecchio!”.
“Sei l’unico con cui si può parlare,” mi disse, “ed un po’ con lei,” indicando Anna, “gli altri tre proprio…”.
A quel punto, inevitabilmente, fu il turno di Dean, “Gli altri tre proprio…che cosa? Fai tanto il duro perché porti quella divisa e hai la pistola in tasca, non te la sapresti vedere da uomo a uomo…”, ed iniziò ad andarci giù pesante mentre dall’altra parte quello minacciava di andare a togliersi la divisa per affrontare il nostro matto Dean.
“Aspettami qui!”, lo ammonì incamminandosi verso la macchina. Voleva davvero andare a cambiarsi per sfidare Dean a pugni?
La situazione stava degenerando quando intervenne il tipo più anziano, meno giovane ed inesperto di quel galletto infumato che mi stava facendo passar via la sbornia. Il tipo prese Dean sottobraccio per calmarlo e si incamminarono mentre io cercavo di spiegare di nuovo le nostre ragioni con estrema calma e chiarezza al giovane ambizioso soldato della nostra patria che era ritornato senza essersi tolto di dosso la divisa.
“Scusa, rifletti un attimo, hai perfettamente ragione, lo so, ma lui è un po’ così. Abbiamo bevuto abbastanza stasera e siamo tutti più o meno ubriachi, ma non stiamo infastidendo nessuno, anche perché ci siamo solo noi e voi. Questo non è reato, mi pare. Volete il fumo? In tutta sincerità lo vorremmo pure noi! Abbiamo fumato l’ultima canna un’oretta fa, poi abbiamo cercato qualcosa ma non abbiamo trovato niente. Niente. Stiamo solo perdendo tempo, sia noi che voi. Siamo studenti, bravi ragazzi. Siamo ubriachi, ok, ma stiamo festeggiando la nostra libertà, la fine degli esami. È estate, siamo in vacanza. Non ti nascondo che avrei voluto fumare ancora qualche canna con i miei amici ma stai certo che se avessimo avuto il fumo non saremmo venuti qui, probabilmente ci saremmo ritirati a casa o saremmo restati a piazza del Gesù dove ci sono decine e decine di persone che stanno ancora arrotolando spinelli, ma nei quartieri non si entra, e poi dovreste sbatterli tutti dentro, ma non si può. Suvvia, smettiamola con questa farsa ridicola…”, proseguivo nel mio discorso mentre il finanziere mi ascoltava attentamente, quasi convinto dalle mie parole mentre Anna, Mena e Yuri si compiacevano della mia magnifica arringa. Sembrava fatta quando a rendere vano ogni mio sforzo ci pensò Dean.
“Adesso mi stanno iniziando proprio a girare i coglioni!”.
Ci voltammo inerti e sbalorditi a guardare il giovane Dean rivoltarsi in quel modo all’anziano pubblico ufficiale che se l’era portato a spasso per calmarlo. Senza ottenere alcun effetto, a quanto si poteva notare.
“È finita!”, pensai. E ci vedevo tutti e cinque in caserma, paranoie e fastidi di cui avrei fatto volentieri a meno stavano per schiaffeggiarmi. Non ricordo come fu, alla fine, dopo ulteriori strazianti discussioni, che chiarimmo ogni dissapore e ci ritrovammo a chiacchierare e scherzare con i due finanzieri. Fummo davvero grandi.
Lo sfogo di Dean non fu che un timido ed inconscio tentativo di resa. Aveva una situazione non troppo chiara con il ministero della Difesa italiano, una storia contorta; lui doveva essere in Belgio dai suoi genitori, non risultava in Italia dove sarebbe dovuto partire militare non avendo mantenuto il diritto al rinvio quando ancora studiava Giurisprudenza a Palermo, il periodo di sconvolgimento più assoluto della sua carriera: dopo aver abusato di psicofarmaci e lsd era caduto nella lugubre trappola dell’eroina. Il suo periodo più bello, per lui. Adesso ne è uscito da anni, ogni tanto rimpiange ancora quei tempi, ma siamo cresciuti e ci sappiamo regolare, ora. Non possiamo permetterci più certe cose.
Il Belgio gli dava un contributo economico per studiare all’estero ed era vincitore di borsa di studio all’università di Roma; così si è laureato, avrà finito entro il prossimo giugno, sarà dottore, uno psicologo, il più affascinante e meraviglioso e geniale psicologo dai tempi di Freud ad oggi. Una piccola truffa, anche se mi sembra eccessivo definirla tale. Gliela aveva fatta a due stati, aveva evitato di svolgere il servizio militare nella maniera più pulita ed onesta possibile, senza sporche intenzioni se non quella di lasciar volare sereno il suo spirito di libertà.
Era una consegna delle armi, o più appropriatamente una consegna alle armi, quella frase, Adesso mi stanno iniziando proprio a girare i coglioni.
Non ce la faceva proprio più, era un periodo difficile per lui ed era stanco di scappare, di essere sempre vigile a non imbeccare in qualche posto di blocco di carabinieri o polizia, gli era andata bene ogni volta, mai il suo nome venne inserito nel grande archivio telematico dei nostri cosmopolitici tutori dell’ordine. Un disertore, ecco cosa sarebbe risultato!
Cosa sarebbero stati, poi, una decina di mesi di carcere militare per il nostro Dean? Ne avrebbe approfittato per leggere, studiare, conoscere persone interessanti e, casomai, magari, scrivere persino quel libro di cui parlavamo un tempo. Forse ne avrebbe tratto solo da guadagnare!
L’estate scorsa, anche se con quattro anni di ritardo, Dean si è recato al consolato italiano in Belgio per cercare di riparare almeno in parte alle sue inadempienze, e pagare casomai le conseguenze delle sue azioni. Cosa ottenne in risposta?
“Sei stato grande, non so da dove tu l’abbia potuta tirare fuori ma hai fatto una cosa geniale. Non ti preoccupare, stai tranquillo, un paio di mesi e ti risolvo ogni cosa, ti metto io i documenti a posto, stai solo attento a non farti beccare in questo frangente se torni subito in Italia. Aggiusto le carte io, fidati. Sei veramente in gamba, amico!”.
Tornammo a casa. Avevamo vissuto un’altra strepitosa avventura, una gloriosa giornata di pazzia e divertimento. Stanchi ed esausti restavano da organizzare soltanto le sistemazioni per dormire la notte. Mena e Carla, la sua compagna di stanza, andarono nella camera di un’altra coinquilina che dormiva fuori, era andata a farsi scopare dal ragazzo, Anna occupò subito il letto di Carla e crollò nei suoi sogni, per Yuri venne tirato fuori un materasso che avevano appunto per gli ospiti mentre io mi misi nel letto di Mena. E Dean?
“Datemi soltanto una coperta che mi metto a terra, io, tranquilli, non c’è nessun problema”.
Durante quel periodo anche a casa sua a Roma, nella stanza che avremmo poi condiviso, Dean dormiva a terra, senza materasso, con un telo soltanto tra lui ed il pavimento freddo. Conoscendo le abitudini del mio amico, per convincere Mena e le perplesse inquiline, dissi, “Fa così anche a casa sua, davvero, lasciatelo perdere, e poi non farà male alla sua schiena. Anche io i primi cinque mesi a Roma, quando ero ospite da Jason e Rino, dormivo sul pavimento, ed allora non era per niente una mia scelta. Non trovavo casa, probabilmente perché non sapevo cercarla, o forse non mi ci mettevo proprio. Era un periodaccio, allora, mi ero lasciato convincere dai parenti ad iscrivermi all’università, ben sicuro del futuro fallimento, ma dovevo scappare da Marylin. Giunsi a Roma per caso, dopo che a Milano il cielo era troppo scuro, il sole non si affacciava mai e gli affitti erano troppo cari. Volevo vivere in una grande città, disperdermi nella confusione metropolitana, essere uno zero qualsiasi, volevo conoscere gente nuova ed interessante, ed inoltre era da poco che avevo iniziato a leggere Bukowski, a bere già avevo cominciato da parecchio e scrivevo pensieri e poesiole, avevo sempre saputo scrivere ma credo fu allora che iniziò a balenare nella mia mente l’idea di fare lo scrittore, di scrivere romanzi: l’atmosfera urbana mi avrebbe dato uno scenario interessante in cui ambientare la mia storia. Pensavo sarebbe stato tutto facile all’inizio, poi ben presto mi accorsi delle difficoltà a cui si andava incontro quando si ha intenzione di scrivere un romanzo a diciott’anni. Volevo scrivere il romanzo di me e Marylin, di quell’amore infinito, poi sono accadute tante cose e non so nemmeno perché sto qui a raccontarvi questo, mettiamoci a dormire, e per favore, lasciate che Dean si metta dove gli pare. Se vuole dormire sul pavimento saranno pure affari suoi, no? Buonanotte”.
L’indomani fummo svegliati chi prima e chi dopo dal sole caldo e dalle urla provenienti dalla strada, non era successo niente, a Napoli funziona così, a Napoli c’è sempre baccano. Il primo ad aprire gli occhi fui io, che dopo essere andato in bagno a cacare, mi rimisi sul letto, guardavo gli altri che dormivano e mi perdevo nei miei fantastici pensieri. Scrivevo, nella mia testa, ma non mi accorgevo di determinati processi mentali, all’epoca. Dopo circa una mezz’ora mi alzai, erano giunti al mio orecchio rumori di stoviglie. Quello che ci voleva era un buon caffè.
Quando mi alzai il mio pene era in posizione eretta, i miei pantaloncini erano gonfi ed io non potevo presentarmi certo di là con quella protuberanza anomala. Aspettai qualche minuto, cercando di non pensarci, in attesa che le cose ritornassero alla normalità. In cucina c’erano Carla e Teresa, un’altra coinquilina, una bella inquilina. Anche Carla aveva le cose buone messe al punto giusto. Era luglio, i loro vestitini minuscoli lasciavano intravedere carne.
“Sta’ buono, tu!”, intimavo in mente al mio gioioso pene che mi segnalava nuovi afflussi di sangue dalle sue parti.
“Ti va il caffè? Lo abbiamo appena fatto!”, disse Teresa avvicinandosi a me.
“Ma certo! Grazie!”, risposi, accavallando le gambe per nascondere le mie timidezze.
Bevemmo il caffè, poi mentre portavo una sigaretta alla bocca, Carla mi intimò di non accenderla dicendomi, “Aspetta, ti faccio fare una canna d’erba!”. Mi sembrava d’essere in paradiso.
Fumammo, mentre si chiacchierava della vita, dei luoghi, della gente. Intanto iniziavano a svegliarsi altre ragazze che abitavano in quell’appartamento, tutte poco vestite, quasi tutte belle. Nuovi caffè, nuove canne, intanto si svegliò pure Mena, le labbra rosse di vino, poi arrivarono altri ragazzi e le canne che giravano non si contavano più. Ad un certo punto mi alzai per andare in camera a vestirmi. Neanche il tempo di mettermi il pantalone e le scarpe che Dean balzò in piedi, agitatissimo, corse ad affacciarsi alla finestra, forse per capire dove si trovasse, o per prendere aria; questo dedussi dalla sua espressione.
“Ho fatto un sogno bruttissimo!”, mi disse, senza accennarmi null’altro.
“Ti ci vuole un buon caffè! Andiamo di là!”, intanto anche Anna si svegliava, pur restia ad alzarsi dal letto, mentre Yuri dormiva ancora beatamente, pacificamente, col sorriso scolpito nel volto ariano.
Ancora caffè, mentre Mena ad un tratto prese un paniere, mise dentro tre euro e lo calò giù dal balcone urlando verso qualcuno, “Signora! Signo’! Sei cornetti: tre a crema e tre a cioccolato. I soldi stanno dentro. Grazie!”. Dopo due minuti mangiavamo il cornetto. Ci sono cose possibili solo a Napoli. Forse l’odore del cornetto, o le batterie avevano fatto il pieno di riposo necessario, erano svegli pure Anna e Yuri, intanto che eravamo rimasti solo noi, gli altri andati via chissà dove. Stavo preparando l’ennesimo caffè per i due che si erano appena alzati quando Anna disse, “Ma una canna? Per fumare come facciamo?”.
“Date i soldi a Mena, ha già i miei, adesso va a prendere il fumo dalla signora qui dietro”, risposi.
“Da sola non vado! Non mi va! Voglio compagnia!”, rispose Mena mentre veniva dal bagno in fondo al corridoio.
“Ti accompagna Dean, vero?”, ribattei rivolgendo lo sguardo verso di lui.
“Ma sì, mi ci vuole proprio una bella passeggiata sotto il sole dopo il terribile incubo di stanotte!”.
Yuri non parlava, come assorto in cupi pensieri nonostante l’espressione ilare che traspariva sul suo viso. Quando tornarono col fumo iniziò la festa. Una canna dopo l’altra, baffi, carciofi, tre filtri, fino a che io e Dean inventammo una bottiglia che fummo costretti a fumare solo noi, dopo che i nostri tre compagni cedevano ad uno ad uno; soltanto io e lui, irriducibili, non conoscevamo il significato della parola basta.
Yuri fu assurdissimo. Durante l’intera mattinata pronunciò in tutto soltanto tre frasi, distanziate l’una dall’altra da infiniti silenzi e sorrisi di assenso ad ogni cosa, ad ogni parola pronunciata: “Il sole è proprio caldo, oggi…”, “Guardate il vento che sposta le foglie delle piante…”, “Sentite come cantano gli uccellini…”. Noialtri ci si guardava e si rideva allegramente colmi di una gioia di vita che non riuscivamo ad apprezzare appieno, frementi, alla ricerca di significati e di esperienze sempre nuove, innovative, non ne avevamo mai abbastanza, senza rimanere mai delusi, disillusi in partenza.
Tentammo invano di convincere Mena a scendere con noi a Sant’Eugenio ma non ne volle sapere trovando sciocche scuse che non avevano né capo né coda. Ringraziamenti, saluti, abbracci, baci e ci avviammo alla stazione a piedi, per far vedere qualche altro scorcio della città di giorno a Dean e l’oramai taciturno Yuri, gli strambi turisti che ci portavamo dietro. Poi ci venne in mente la pizza, dovevamo mangiare la pizza. Fu così.
Alla stazione, fatti i biglietti, ce ne capitò un’altra delle nostre, un nuovo incontro con dei tutori dell’ordine. Andavamo verso il nostro binario, quando una voce, “Giovanotti! Venite un po’ qui!”. Carabinieri, o polizia, non ricordo, non fa molta differenza.
“Favorite i documenti, forza!”. Questa volta stavamo tutti zitti, c’avevamo il fumo, ce l’aveva Dean nel portafogli che tirò fuori per mostrare i documenti.
“Da dove venite?”, disse uno degli sbirri.
“Roma”, “Belgio”, “Sant’Eugenio”, “Battipaglia”, rispondemmo contemporaneamente.
“Dove state andando?”, ci chiesero mentre le nostre risposte continuavano ad essere divergenti; eravamo quasi nei guai. Avevamo con noi la Les Paul di Jason, l’aveva lasciata non so perché a Roma e dovevamo scendergliela noi.
“Che cosa avete lì dentro? Aprite! Fateci dare un’occhiata!”, disse uno mentre voleva provvedere da solo a controllare il nostro bagaglio ingombrante ma non riusciva ad aprire la custodia e chiese aiuto ad Anna. Era solo una chitarra.
“Il passaporto ce l’hai?”, chiedevano a Dean che in tasca aveva il fumo di tutti noi ed un bel po’ di intima paura.
“No, veramente non sapevo che si dovesse portare dietro, mi dispiace. Ho solo quella tessera sanitaria lì come documento di riconoscimento”, Dean sembrava un agnellino, rispondeva ad ogni domanda con garbo ed educazione, non era la stessa persona della sera prima, niente affatto. Gli uomini in divisa scrutavano i nostri documenti come se contenessero chissà quali informazioni e segnavano sul loro registro i dati dei pericolosi criminali che stavano interrogando. Dopo aver constatato che si stava facendo tardi, rivolgendomi ad uno dei due, dissi, “Ma quanto tempo ci vuole ancora? Fra tre minuti abbiamo il treno, se lo perdiamo, una volta arrivati a Battipaglia non abbiamo coincidenze. Come facciamo? Vediamo se è possibile accelerare i tempi, per cortesia”.
Terminarono di compilare la scheda o non so che e ci lasciarono incamminare verso il nostro treno. Mentre andavamo via, uno dei due, con tono di rimprovero, disse a Dean, “La prossima volta che vieni in Italia porta il passaporto con te, e dillo pure al tuo amico che non parla italiano!”, si riferiva a Yuri, che non aveva spiccicato una sola parola durante l’intera conversazione.
Il treno era partito, Napoli lentamente si allontanava dietro le nostre spalle, noi volevamo continuare a vivere e ci saremmo riusciti. Ad ogni costo.
Scendemmo ad Eboli per prendere l’autobus che ci avrebbe portati a Pula perché in quel periodo vivevo l’ennesima crisi con mio padre, quasi non ci parlavamo ed erano due giorni che non rispondevo alle sue telefonate, per paura e forse un po’ per dispetto, per far crescere le sue preoccupazioni, che erano tante, ed in fin dei conti giustificate. A Battipaglia il mio papà era molto conosciuto e per evitare che qualcuno avesse potuto vedermi ed avvisare il mio vecchio che mi trovavo lì scendemmo alla fermata successiva, Eboli, dove si era fermato pure Cristo. Aveva preso il nostro stesso treno?
Alla stazione di Pula vennero a prenderci Jason ed Annalia, una ragazza abruzzese innamoratissima di lui che conoscemmo insieme un paio d’anni prima e con la quale avrei abitato per sette mesi dall’autunno che presto sarebbe venuto. Lasciammo Anna a casa dei suoi, poi Jason portò noialtri da me. Non c’era nessuno, la mia famiglia era andata in vacanza al mare, restava a nostra completa disposizione l’intero appartamento. Una volta saliti su facemmo a turno la doccia, mangiammo ed iniziammo a bere mentre consumavamo le ultime canne rimaste, ogni cosa era splendida, meravigliosa, perfetta. La vita ci sorrideva mentre noi ci prendevamo gioco d’essa. Mancava la tragedia che non si fece attendere.
Dean ha un rapporto controverso con il telefono cellulare, è solito non portarlo con sé quando esce lasciandolo spento a casa. Quando gli squilla il telefono è sempre a casa, di conseguenza. È facile capire quando puoi trovarlo. Quando va in giro lo abbandona a sé stesso per giorni, settimane, mesi, come quando dovevamo andare in Grecia e non sapevo come contattarlo, era impossibile, intanto che la mia vacanza sfumava, Dean mi era sfuggito di mano, era uscito fuori dal mio controllo e non sapevo dove trovarlo, mentre si stava innamorando di Maria. Cosa ne potevo sapere io?
La magnifica atmosfera in cui stavamo vivendo si frantumò in un istante. Dean ricevette una chiamata inattesa, mai voluta ricevere, nel breve lasso di tempo che accese il telefonino. Era morto suo cugino, il suo cugino prediletto, appena diciottenne quando la strada assassina lo aveva portato via con sé.
“Un pazzo,” diceva Dean, “ma di quelli giusti, un ragazzo in gamba, un tipo fantastico. Avreste dovuto conoscerlo, ci dicevamo che l’inverno prossimo sarebbe venuto a Roma a trovarmi, ma si sballava troppo, lo sapevo, fin da ragazzino aveva avuto sempre un certo talento per tirarsi addosso guai più grandi di lui, dovete sapere quante volte gli ho salvato la pellaccia, rischiando la mia, ma adesso non c’è più, se ne è andato. Mi sembra impossibile. Aveva brama di vivere, ogni suo istante, in ogni istante. Ora è morto. È morto. Non c’è più. Non ci sarà mai più. Sembra così assurdo. Non si tratta per niente di un brutto sogno, l’incubo di stanotte era un presagio, un avvertimento, ora è chiaro anche se questo non cancella questo dolore dentro che proprio mi sembra non riuscire a sopportare, è tremendo pensare che sia finita così. E tutte le cose che avevamo ancora da dirci? Avrebbe dovuto prendere me, al suo posto…”.
Piangeva, Dean, cercava di parlarci, di sfogare almeno una piccola parte del suo immenso dolore. Era straziante per me vedere quelle lacrime scorrergli sul viso, la pena tremenda infiammare le sue pupille disperate.
“Mi dovete scusare, ragazzi…”, insisteva nel dire, accusando sé stesso di insignificanti ed ignobili sensi di colpa mentre la sofferenza lo stritolava.
Le nostre parole, gli abbracci, non potevamo farci nulla, e per quanto cercassimo Yuri ed io di stare accanto al nostro amico, le distanze erano di dimensioni incalcolabili. Quello che mi faceva maggiormente male di quei terribili istanti non era tanto vederlo ridotto in quel modo dal suo dolore ma quanto il fatto che lui cercasse di giustificare i suoi legittimi stati d’animo, con frasi tipo “non vorrei rovinarvi la vacanza” e cazzate innominabili che Dean costruiva soltanto per stare peggio del peggio in cui era sprofondato. Yuri ed io non sapevamo cosa dire, quali parole avrebbero potuto essere di conforto, se esistevano parole di conforto, come tutte le volte che ci si trova in situazioni analoghe. Continuammo a bere. Cos’altro avremmo potuto fare?
Vedevo il mio eroe demolito dal grande dramma della vita e della morte mentre nella mia mente ricercavo le parole di consolazione necessarie, le parole introvabili, inesistenti, che mai nessuno riuscirà a coniare. L’animo umano è troppo complesso per essere compreso da un uomo comune, persino Nietschze è morto pazzo. Pazzo? Chissà cosa aveva compreso lui che noi non conosceremo mai!
Erano le undici quando ce la facemmo ad uscire. L’ebbrezza sinfonica dell’alcool distendeva apparentemente gli animi nonostante qualcosa per Dean da quel giorno sarebbe mutata per sempre. Raggiungemmo gli altri al Sombrero, da lì andammo a Pula dove qualcuno dei ragazzi aveva appuntamento con un tipo che ci avrebbe portato il fumo. Restai un quarto d’ora a parlare con J.J. Brown e Freddy Jungler mentre Dean e Yuri si integravano perfettamente nella comitiva tanto che si calarono quasi un’intera boccettina di Tranquirit insieme a zio Tom lasciando a me soltanto poche gocce quando ritornai da loro. Andava bene così.
Avevamo il fumo ma le bottiglie di vino erano finite. Occorreva organizzazione. Me ne avvidi io.
Si raccolse i soldi, qualcuno sarebbe andato a prendere birra in quantità industriali. Ritrovo come ogni sera la cappella di San Luca.
Sembrava una festa, era una festa, c’era gente che andava e veniva, gli spinelli viaggiavano in abbondanza, avevamo due bustoni di birre, Moretti e Peroni grandi, e chiunque arrivasse portava con sé altre Peroni e Moretti grandi. Birra a volontà. Birra a volontà. Birra a volontà.
La festa era stupenda, ogni più piccolo momento diventava eterno, si stava bene, le ore perdevano connotati, il tempo si annullava, esisteva soltanto il presente mentre si parlava solo di futuro e del passato si ricordava solamente ciò che di glorioso era stato vissuto; l’unico a morire dentro era Dean ma lo nascondeva alla grande. C’eravamo tutti, ed anche di più, mancava solo Mena, che era a Napoli, pensava a Dean, sognava un amore. Per fortuna fu un fuoco di paglia di un paio di mesi, per fortuna per me, dato che lei mi chiamava quasi tutti i giorni, voleva sapere di lui, era rimasta folgorata, voleva rivederlo, e via dicendo. Che palle!
Quando rimanemmo in pochi, gli eletti, Jason tirò fuori dal cilindro quello che sarebbe stato il piatto forte della serata: la Cocula è una specie di papavero dai petali violacei, si narra che un tempo venisse somministrato ai bambini sotto forma di tisana quando c’era da lavorare ai campi per l’intera giornata o per più giornate consecutive e nessuno poteva accudire i bambini. Bevete questa tisana, da bravi bambini, vedrete i sogni che farete, dormirete per tre dì, ininterrottamente.
Si erano ritirati tutti, gli unici rimasti fummo io, Dean, Yuri, zio Tom, Reb e Jason. Questi prese il bulbo del papavero e lo intaccò con il coltellino svizzero di zio Tom, i semi venivano fuori e venivano impastati con hascisc e tabacco: si fumava. Jason aveva visto quel fiore nel giardino di un’anziana signora proprio di fronte casa sua ma per avere ulteriore certezza che si trattasse proprio di quella quasi estinta specie di papavero, chiese un giorno alla nonna, “Hai visto quei fiori di fronte casa, quella specie di papavero viola? Ma cos’è? Non l’avevo mai visto prima!”.
“Stai attento con quei cosi, non li toccare, non ti avvicinare nemmeno. Con quelli fanno…come la chiamate voi giovani? La cucaina!”.
“Ok, ho capito, va bene, grazie nonna!”, rispose.
“È lei!”, pensò nel medesimo istante. La notte stessa scavalcò la rete di protezione per impossessarsi dei fiori che stavamo fumando. Non erano affatto male, rimanemmo lì per ore a raccontare fatti, storie, sogni. L’effetto ci assopiva: Jason si faceva spiegare da Yuri un certo modo di suonare le percussioni usato in Africa che dava l’impressione che la musica girasse, Reb era stanco e voleva ritirarsi, zio Tom stringeva sempre più amicizia con Dean; io ero lì attento osservatore smarrito nel mio eterno viaggio introspettivo: nasciamo nessuno, dobbiamo diventare qualcuno, innanzitutto. Io cos’ero? Cosa volevo ottenere? Probabilmente nulla, mentre mi lasciavo andare non trovando me stesso, non avendo alcun me stesso, disilluso, zero identità, drastiche possibilità, menzogne, banale viltà imperante in un mondo in cui non mi ci ritrovavo, romantico narratore di inizio secolo, il ventunesimo, il peggiore che mi poteva capitare.
Era ora di andare, si decise. Salutammo Jason, Reb e zio Tom e ci avviammo in paese a bordo della vecchia macchina di mia madre discutendo su cosa fare.
“Io voglio solo andare a dormire”, ripeteva Yuri ad ogni proposta. Lo portammo a casa ma noi non ne avevamo abbastanza, ancora frementi e frenetici di vita, malesseri e malattie.
“Andiamo a bere altre due birre, noi!”, disse Dean - e via di casa, di nuovo, nel cuore della notte, la tenebrosa notte, incontro l’alba di un magnifico giorno di lotta. Erano le prime volte che guidavo dopo oltre un anno e mezzo che avevo la patente, mi sentivo insicuro ma volevo portare Dean in giro per il desolato e desolante Vallo di Diano, la prigione che mi aveva rapito da bambino, da cui non avevo avuto esitazioni a scappare alla prima possibilità. Macinavamo chilometri mentre Dean sprizzava beatitudine da cui estrapolavo fondamenta per rinnovate sicurezze.
“Ma guidi bene, perché ti fai tante paranoie? Vai! Continua ad andare!”, era un angelo, Dean, senza dubbi. Ogni momento mi spingeva a credere in qualcosa di diverso mentre io non credevo più a niente, ci conoscevamo sempre meglio, ognuno a raccontare la propria storia, svelavamo i segreti più cupi ed interiori, ascoltarsi a vicenda era migliorarsi, stavamo crescendo, diventavamo grandi, le barriere che incontravamo le spazzavamo via come si consumavano le nostre sigarette. Il seme dell’amicizia piantato circa un anno prima era cresciuto, maturo per salire rinnovati gradini nella scala della conoscenza.
Trovammo un unico bar aperto in tutto il Vallo, a Pula, il bar dove aveva lavorato Anna prima di iscriversi all’università. Erano le cinque del mattino. Dean scese a comprare quattro birre, ghiacciate, proprio quello che ci voleva col gran caldo che bruciava dentro. Eravamo andati incontro l’alba ma quando le incappammo innanzi non la degnammo di sguardi né attenzioni, troppo presi da noi stessi, dal germe della follia che macerava nelle nostre vene ebbre di vita e di veleno. S’erano fatte le sei, la giornata era stata ben spesa, avevamo dato tanto e forse era il caso di ritornare. Yuri dormiva serenamente, stanco anch’egli della meravigliosa giornata che aveva voluto congedare mentre che a me e Dean restavano ancora forze per lottare, ancora forze per bere. Non esistono parole per descrivere i momenti sensazionali che si susseguivano e ci spingevano oltre i limiti, ansiosi di tutto ciò che era nuovo, bramosi di conoscenza, costantemente disposti a rischiare, mossi da una forza oscura, magica, inspiegabile, sublime: la vita. La vita!
La nostra crocifissione, le nostre tragedie, le maledizioni, le pene, le patologie, le sfortune, ogni catastrofe veniva messa via in un cassetto nascosto della nostra contorta psiche in quei momenti, quei momenti quasi gioiosi, quei momenti di magia che non riuscivamo a comprendere, in quei momenti, momenti di vita.
L’indomani Dean quando si svegliò mi trovò intento a scrivere seduto alla penisola che divide la cucina dal salone. Avevo buttato giù mezza bottiglia di gin diluito con del succo d’arancia: la mia colazione.
“Tu sei proprio pazzo!”, disse Dean vedendomi così, nel pieno di una nevrosi da risveglio che cercavo vanamente di placare con l’alcool, la più semplice delle soluzioni, la più pericolosa. Dean sorrideva di me, il suo sorriso era un piccolo dono di benessere e rassicurazione che ricevevo e trasformavo in volontà che non avrei mai creduto di possedere.
“Sai, mi ha fatto veramente bene parlare con te durante il lungo giro che abbiamo fatto stanotte, mi sento ripreso, più calmo, padrone delle forze maligne che mi si contorcono dentro, che mi vorrebbero far esplodere o impazzire definitivamente”, disse mentre io stavo preparando il caffè. Anche Yuri fu presto sveglio e tra noi.
“Ma a che ora siete tornati? Vi ho sentito nel sonno ma non avevo nemmeno la forza di aprire gli occhi. Che avete fatto? Dove siete andati?”, chiese.
“Siamo stati in giro per il Vallo, abbiamo percorso chilometri su chilometri. Guida proprio bene, l’amico, sai? Mi ha fatto vedere un sacco di paesini mentre cercavamo un posto aperto per prendere da bere e tutto era chiuso, poi alla fine abbiamo trovato un bar dove una volta lavorava Anna e abbiamo bevuto due belle birre fredde…”, rispose Dean. Si sentiva contento, euforico, positivo, nonostante il grande lutto che rodeva dentro di lui, mascherato con la maestria del grande attore, del grande santo.
Era finita. Yuri e Dean sarebbero partiti dopo qualche ora, mi avrebbero lasciato in quel luogo desolato, detestato, causa di affanni e mali, sbandate, riprese, ricadute. Tornavano a Roma per poi andare dalle famiglie che li attendevano, intanto io non sapevo dov’erano i miei e vegetavo tra le loro case, sciupando i loro danari sudati col lavoro e coi sacrifici. Non avevo nessuna ricompensa da dare se non la fuga, forse un po’ anche per far male, per immotivate inconsce bramosie di vendetta, ingiustificate ed ingiustificabili. Avevo l’impressione di aver perso il controllo su ogni mia decisione, come se la vita mi fosse stata sfilata tra le mani non appena mi era parso di averne assaporato lievemente il succo. Mi sentivo impotente, inerme, inesistente.
Era l’inizio di un’estate di incertezze ed indecisioni, di lunghe meditazioni sulle scelte sbagliate che avrei fatto in futuro: restavano poche possibilità, dovevo dare una svolta, trovare la mia strada, la via maestra, aprire le porte che avrei trovato davanti, persino quelle all’apparenza inaccessibili, svelare ogni disinganno soltanto per il desiderio della scoperta e della conseguente delusione, per compiere nuovi miracoli, estremi sacrifici, demolire sogni ed essere invaso da ignoti incubi ultrasensoriali.
Raccogliemmo la spazzatura accumulata in quei due giorni, un mare. Eravamo pieni di rifiuti, di vuoti a perdere. In quel periodo a Sant’Eugenio iniziava la raccolta differenziata, il paese si stava evolvendo, si sviluppava. Riempimmo due grossi sacchi neri mischiando rifiuti organici ed inorganici, carta, vetro, plastica, e li portammo con noi a Pula, dove li posammo in un bidone sperso nella campagna sulla via per andare alla stazione. Gli ultimi istanti insieme prima della lunga estate di lontananza, la nostalgia padroneggiava sulla magia circostante ed il silenzio era un mare di calma e pace totale dove chissà se mai riusciremo a vivere. A vivere. Come si fa a vivere? Le distanze, i confronti, le cose taciute. Occorrono corazze più forti, scudi che realmente proteggano dal fango e dal buio che ci opprimono e ci fanno sentire incatenati, come in prigione, una prigione da cui non riusciamo ad evadere.
I capi d’accusa erano caduti, il motore della giustizia s’era inceppato: nessuna colpevolezza e condanna infinita, sfaccettature non considerate, misere peregrinazioni avvolte di misteri svelati, accondiscendenze varie, sempre, per evitare ogni minimo dibattimento, ogni scontro o conflitto, i soliti disfacimenti, vedute offuscate, pianure sterminate, intanto che diventavamo grandi, eravamo quasi uomini, uomini che lottavano per la propria indipendenza, per la libertà. Assente ogni più subdola forma di sottomissione, ci trovavamo in lotta con eccessive dipendenze e vizi pericolosi, buone e cattive compagnie: avevamo in mano la fede e l’amicizia, la fiducia e dio. Eravamo poveri ma splendenti, eravamo speciali.
Arrivammo alla stazione abbandonata dei treni dove Yuri e Dean avrebbero preso l’autobus che li avrebbe condotti a Battipaglia, da lì il treno, cambio a Napoli, e via alla volta della capitale. Ogni volta che si va da qualche parte e si ritorna, per partire ancora, per viaggiare sempre, mai stanchi di nuovi posti da visitare o di luoghi conosciuti, basta che si cambi, si vada alla ricerca di qualcosa di diverso, di distaccato dalla routine urbana di ogni incantevole giorno di crocifissione, verso persone da andare a trovare, persone da incontrare, nuove conoscenze, nuovi arrivederci ed eterni addii in cerca di un costante movimento, purché ci sia una partenza, il viaggio, esperienze, sconfitte necessarie e paludi da cui non avremmo mai creduto di poter uscire vivi. La necessità del ritorno al nido per una nuova fuga.
L’ultimo ricordo di quei giorni lo conservo ancora nel cassetto del comodino nella mansarda della casa di famiglia, è un accendino arancione oramai senza più gas che mi ritrovai in tasca mentre Dean e Yuri mi salutavano dal finestrino del pullman, l’accendino di Dean. Non appena me ne avvidi feci come il gesto di volerglielo ridare ma il potente automezzo si stava allontanando, l’espressione sul viso di Dean mi diceva di non preoccuparmi, di tenerlo, non importava. I miei amici intanto diventavano sempre più piccoli, offuscati nel loro splendore dal vetro opaco e sporco mentre lentamente andavano smarrendosi in fondo al viale, per sparire dietro la prima curva. Non li vedevo più, strinsi forte nella mia mano l’accendino, poi presi una sigaretta, l’accesi ed entrai in macchina. Avrei voluto partire veloce, inseguire il veicolo che mi stava sottraendo quei pochi istanti di beatitudine appena vissuti ma già discosti. Una morsa leggera mi pizzicava il cuore.
“Ci vediamo a settembre…”, fu il mio ultimo tragico pensiero vedendo la strada vuota, la strada che mi stava privando del benessere che mi aveva sfiorato impercettibilmente l’animo.
Misi in moto e tornai a casa.